Gli anni Novanta e i primi del nuovo millennio sono stati caratterizzati musicalmente dall’avvento di nuovi gruppi e nuove correnti, inserite in contesti post-rock, l’alternative folk, capaci di elettrizzare il suono di quegli anni.
Band come i Good Speed Black Emperor, Cerberus Shoal, Calla, Jackie-O Motherfucker, Black Heart Procession, Low, Sixteen Horsepower hanno saputo coniugare passato e futuro, blues, folk, rock e punk con risultati a volte particolarmente piacevoli.
Su tutti, nella mia classifica personale, primeggiamo i Sixteen Horsepower, band formatasi a Los Angeles nel 1992 creatura del geniale e misterioso David Eugene Edwards, figlio e nipote di pastori metodisti del Colorado, cresciuto a pane e sermoni, scappato poco più che ventenne in California alla ricerca della terra promessa.
Qui incontra il bassista Pascal Humert e il percussionista Jean-YvesTola e insieme incominciano a plasmare un personale suono con grandi influenze folk-blues dove lo spirito punk e new wave dei Gun Club, Joy Division e dei Bad Seeds di Nick Cave lascia tracce ben evidenti.
Un percorso tormentato come l’anima della band che arriva, nel 2002, ad incidere questo Folklore, quinto ed ultimo album (Glitterhouse – 560) che si spinge verso la tradizione popolare americana e lo fa con un suono maggiormente pacato, meravigliosamente struggente, dove la voce di Edwards raggiunge momenti di intensità difficilmente replicabili.
Un album che suona moderno e antico nello stesso tempo, dove le atmosfere quasi gotiche ti portano, come d’incanto, in quei villaggi sperduti sugli Appalachi dove sai di arrivare ma non hai la certezza di tornare. Un album dedicato ai ricordi, alla musica della tradizione dove solo 4 sono i brani originali e 6 le cover rese con una passionalità sepolcrale di rara bellezza.
Appena parte l’iniziale “Hutterite Mile” si viene colpiti dalla desolazione e dalla bellezza di questo brano, senza dubbio uno dei migliori uscito dalla penna di Edwards, e l’attenzione va tutta a quel sound fatto di strumenti arcaici che ti strappano la pelle di dosso.
Un banjo clawhammer detta il tempo di “Outlaw Song”, traditional di antica origine ungherese in pieno spirito americano che – dopo l’oscura “Blessed Prestige” – riporta in vita Hank Williams e la sua “Alone And Forsaken” con una coraggiosa rilettura.
Tocca alla Carter Family e a “Single Girl” dare un tocco di luce e pacata felicità al suono di questo album. Ma è un’illusione e subito il cupo suono di “Beyond The Pale” riporta tutti ad un blues dove la sofferenza è la protagonista assoluta, drammaticamente suadente.
“Horse Head Fiddle” rincara la dose, una preghiera di una luciferina tristezza, capace di portarti nel buio più buio, ma con assoluta serenità. E nemmeno la seguente “Sinnerman” – spiritual afro-americano reso celebre da Nina Simone – è in grado di riportarti alla luce.
“Flutter” è l’ultimo brano originale del disco che precede la mazurka molto zydeco “La Robe A Parasol”, in classica lingua francese, con un bel accordion che ci accompagna alla fine del disco. Un disco notturno, fumoso dove esce un’America oscura ma assolutamente reale.
[Antonio Boschi]
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