“Melic” di Hayseed arrivò nei negozi di dischi sul finire del 1998 – solo in quelli di un certo livello (già pochi allora) – un CD dalla copertina particolarmente accattivante.
È vero che non bisogna farsi ingannare dalle confezioni, ma io che son grafico la prima cosa che guardo è la copertina. E ci mancherebbe. Questo “Melic” (1998 – Watermelon, 11074) a nome – a me assolutamente sconosciuto – Hayseed mi colpì immediatamente per la sua bucolica semplicità che racchiudeva tutta l’America rurale che amo.
Sono bastate poche note ascoltate in negozio (questo si fa nei negozi seri) e il disco è finito nella mia tasca in viaggio verso casa, dove ha avuto il giusto battesimo. Un disco bello, scarno, rurale ed intelligente. Un disco che non avrà arricchito Christopher Wyant, se non moralmente, ma la sua spartana bellezza di soddisfazioni deve averne date tante a questo ragazzone della Virginia.
Persino la grande Lucinda Williams spese parole di grande stima per Hayseed e possiamo capirla, lei che non scende a compromessi, tanto che ha voluto dare un suo contributo canoro in un paio di brani: “Precious Memories”, noto tradizionale che nelle mani di questa copia rivive in un’intensa versione che tira al gospel e la seguente, conclusiva, “Credo” vette di questo disco assieme alla cover di “Melissa”, la famosa ballata di Gregg Allman.
Ma non è solo la Williams a collaborare in questo “Melic” che vede come protagonisti anche il grande banjoista Doug Dillards, Richard Price alla chitarra, dobro e armonica, Joy Lynn White alla voce, il violinista Tramp più tanti altri amici. In alcuni punti si percepisce il passato di Hayseed (classe 1966) nato a Western, Kentucky dove il padre era un ministro della United Pentecostal Church International, una delle tante sette religiose che l’America da sempre possiede.
Lo spirito di questo disco, sempre al confine tra folk e bluegrass, è molto rigoroso e, proprio per questo capace di coinvolgere l’ascoltatore già dalle noti iniziali di “Cold Feet” che strizza l’occhio al bluegrass senza esagerare con l’uso degli strumenti che assumono un carattere quasi old-time. Anche la seguente “Wild Horses”, piacevole ballata acustica, vede utilizzati un po’ tutti gli strumenti (compresi mandolino e dulcimer) in un perfetto equilibrio sonoro che rendono la canzone un piccolo gioiellino. “Fall In The Shadow” sembra un brano acustico dei Black Crowes che avrebbe potuto fare la sua porca figura nella colonna sonora del film “Fratello dove sei?”, così come lo struggente coro a cappella “Father’s Lament” che segue il bluegrass “Good-Shaped Hole”.
Il melanconico strumentale per violino e mandolino “Voices” ci catapulta indietro di oltre un secolo, ai tempi di Jesse James e della desolazione del post Guerra di Secessione. Brividi. Di “Melissa” e della sua bella versione vi ho detto, è sempre stata e sempre sarà una grande canzone, dal tipico strascicato spirito sudista, ma sulla quale è molto facile inciampare.
Sono canzoni, questa come Knockin’ di Dylan, dove se aggiungi troppo materiale sei spacciato, Hayseed ne esce promosso a pieni voti. L’album riprende brio col bluegrass di “Between The Lines” col violino protagonista e si va alla ballata “Walk This Earth”, che ci riporta, anch’essa, al secolo precedente anche grazie al contributo della brava Joy Lynn White. “Origin Of The Snake” è una brillante square dance tra Louisiana e Kentucky che ricorda alcuni dei migliori momenti del disco “2” di Mora & Bronski (altro disco che consiglio caldamente).
È il turno di Lucinda Williams e dei saluti finali di questo gran bel disco che consiglio a tutti di cercare. Hayseed sarà sempre un outsider, ma noi appassionati – alla fine – sono quelli che preferiamo.
L’immagine nella foto è tratta dal meraviglioso libro “The Blue Room” del fotografo Eugene Richards.
[Antonio Boschi]
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