Norman Blake: The Fields Of November

Dischi come “The Fields Of November” di Norman Blake dovrebbero essere patrimonio mondiale per la cultura, per la bellezza e per l’importanza storica che hanno. Tutto nasce a Sulphur Springs, un piccolissimo paese dell’Alabama, posto nell’area orientale dello Stato quasi al confine con la Georgia e sorto come fermata lungo la Great Southern Railroad. Si caratterizza per non aver nulla di interessante, ma in questo sperduto paese tra i boschi dei Monti Lookout e sorgenti di acque solforose, vive uno dei più grandi chitarristi di american music di tutti i tempi, e questo a noi basta.

Blake, nativo di Chattanooga, nel Tennessee, proviene da una famiglia di ferrovieri e non è un caso, quindi, che storie riguardanti i treni siano spesso protagoniste dei brani di questo polistrumentista. Conosciuto come chitarrista, strumento nel quale eccelle, Norman Blake è anche un ottimo mandolinista, violinista e dobroista e in questa sua seconda prova discografica, datata 1974, ce ne da una gran dimostrazione.

Quello che immediatamente colpisce è la sua grandissima tecnica che, molto intelligentemente, esce gradualmente, senza mai esagerate ed inutili dimostrazioni di bravura, preferendo il gusto che darà alle sue composizioni – o alle reinterpretazioni – quel tocco in più, riempiendo ogni spazio tanto da poter suonare anche da solo, e che lo consacreranno tra i grandi interpreti di american music.

Essendo nato nel 1938 la sua formazione musicale viene grazie all’ascolto della radio e di tutti quei personaggi celebri in quei tempi, come la Carter Family, Roy Acuff, Bill Monroe e Merle Travis ma, anche, dai dischi di Riley Puckett e Sam McGee che influenzeranno il proprio approccio alla musica, così come la nonna materna dalla quale imparerà a suonare “Spanish Fandango” in accordatura di Sol aperto.

Non termina nemmeno gli studi, tanto la musica diventa centrale nella sua vita e a 16 anni forma un trio, Dixieland Drifters, si esibisce col banjoista Bob Johnson in un repertorio di appalachian music e incide un album assieme a Walter Forbes. Dopo una parentesi nella band di June Carter e il servizio militare svolto sul Canale di Panama (siamo nei primi anni Sessanta) eccolo arrivare a Nashville, invitato da Johnny Cash col quale inizierà un buon rapporto di amicizia e collaborativo. Cash lo introdurrà nel mondo “che conta” ed inizierà una sua attività di sessionman che lo vedrà alla corte di big come Bob Dylan, Kris kristofferson e Joan Baez fino ad essere invitato a partecipare al sontuoso progetto “Will The Circle Be Unbroken” dalla Nitty Gritty Dirt Band, dove si esibirà come dobroista, dopo aver partecipato all’album di John Hartford “Aereo-Plain” assieme al violinista Vassar Clements, al dobroista Tut Taylor e a Randy Scruggs, formazione che apparirà anche nell’album di debutto di David Bromberg.

Indubbiamente inserito tra i migliori chitarristi, sul finire del 1971 registra il suo primo album, “Home in Sulphur Springs” che uscirà grazie alla Rounder pochi mesi dopo e che lo vedrà in compagnia di Tut Taylor. L’album – pur venendo apprezzato dalla critica – non vende quasi nulla e, allora, al buon Norman toccherà aspettare fino al 1974 quando la neonata etichetta Flying Fish di Chicago gli permetterà di incidere questo “The Fields Of November”, forse l’opera migliore di tutta la sua discografia.

Un album che si presenta con due differenti stati d’animo, uno – il lato A – più intimo e triste seguito, voltando il vinile da un approccio più brioso ed allegro. Ad aiutare il chitarrista in questi suoi brani, troviamo Nancy Short, violoncellista che diverrà compagna di tutta la vita sia sentimentale che artistica, il chitarrista Charlie Collins e l’amico fidato Tut Taylor, maestro dello “square neck” Dobro.

Si parte con lo strumentale “Green Leaf Francy” con Blake al violino seguito da “Last Train From Poor Valley”, ballata dove Blake ci canta le tristi vicende della moglie di un ex minatore. “White Oak Swamp” è un puro esempio della grandezza chitarristica di Blake, ben supportato da Collins che nella seguente “Ruins Of Richmond” farà da perfetta base per il mandolino del leader.

“Graycoat Soldiers” ci racconta dei tragici momenti della Guerra di Secessione con la Georgia messa a ferro e fuoco dal Generale Sherman, ballata meravigliosa col violoncello di Nancy a regalare quell’intensità necessaria dalla tematica del testo. Ancora uno strumentale di gran classe con Blake e Collins a scambiarsi le parti nella veloce “Caperton Ferry”. Chiude la prima facciata “Southern Railroad Blues”, storia di ferrovieri e vecchie locomotive a vapore dove Taylor fa il suo debutto sul disco e Collins fa “fischiare” il treno col suo violino.

Il lato B si apre con la bellissima “Lord Won’t You Help Me” che anticipa i due strumentali “Krazy Kurtis” con Blake solo con il Dobro e “Coming Down From Rising Fawn” di chiara ispirazione britannica. La ballata “Uncle” ci racconta la storia di uno zio violinista, mentre Collins ricama con il suo “fiddle” old time.

Chiudono altri due strumentali, “The Old Brown Case” – stupenda con Norman Blake da solo con la vecchia chitarra Martin e il suo crosspicking di gran classe – e la conclusiva title track che ci congeda con un quasi drammatico e solenne gioco di archi (Blake e futura moglie), mentre Collins impreziosisce il tutto con la chitarra.

“The Fields Of November” è il titolo perfetto per un album fondamentale per scoprire l’arte di Norman Blake, intrisa delle sonorità del buon vecchio Sud statunitense.

[Antonio Boschi]

Norman Blake – The Fields Of November cover album


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2 Responses

  1. Ho sentito Norman Blake per la prima volta sul magnifico triplo album della Nitty Gritty che hai menzionato. Poi ho acquistato un paio di suoi dischi.
    Vederlo suonare tuttavia ha dato ulteriore senso al mero ascolto. Ho un VHS di un suo trio con Nancy e un violinista che non ricordo. L’ambientazione era assolutamente tristanzuola (i tre in studio in un setting assolutamente immobile, statico e privo di alcuna emozione “visibile”, complice una pressoché totale assenza di mimica facciale!), ma vedere la scioltezza con cui Blake suonava mi ha dato una spinta in più per cercare di interpretare (con risultati purtroppo mediocri) la musica tradizionale americana: volevco essere bravo (!) e sciolto come lui, anche nell’aspetto! 🙂

  2. Blake è – per me – uno dei pochi della seconda generazione dei chitarristi che è riuscito a non oltrepassare quell’invisibile limite dove la tecnica prevale sull’anima, uccidendo la musica.
    Sono, ovviamente, visioni personali che lasciano il tempo che trova, ma sempre più sono convinto che quando c’è troppa tecnica l’arte sparisce, non a caso adoro David Bromberg perché commette anche degli errori che rendono molto più umana la sua musica.
    Poi noi che veniamo dal Delta Blues dovremmo aver ben chiaro questo concetto, non trovi?
    Grazie del tuo commento!

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