The Allman Brothers Band – “Fillmore East Recording” recensione e foto di Antonio Boschi

«OK, The Allman Brothers Band», bastano queste semplici parole pronunciate da Michael Ahern per entrare nella storia della musica.

La primavera era quasi alle porte in un’ancor fredda New York in quel lontano 1971, anno di grazia per un certo tipo di musica che ha lasciato un segno indelebile nella storia e nell’immaginario di tanti di noi.

Nell’East Village, al 105 di Second Avenue, da ormai tre anni esisteva un locale di proprietà di quel genio che rispondeva al nome di Bill Graham e che aveva ospitato il meglio della musica contemporanea.

Solo per citare alcuni nomi, sulle tavole di legno di quel palco passarono Miles Davis, Jimi Hendrix, CSN&Y, Grateful Dead, Led Zeppelin, King Crimson, Johnny Winter, Jefferson Airplane e quella che i fedeli frequentatori amavano definire la “House Band di Bill Graham”: The Allman Brothers Band.

La formazione di Macon (Georgia) aveva trovato nella Grande Mela e nel Fillmore East una sorta di seconda casa poiché il pubblico newyorkese era davvero caldo e l’acustica del locale a dir poco eccellente.

Un mix perfetto per pensare di registrare proprio lì il loro primo album dal vivo. In effetti si sentiva la necessità di far conoscere il vero suono del gruppo che era ben differente da quello ricreato in studio e furono proprio i componenti stessi della band che, per primi, si accorsero di questo divario e della necessità di trasmettere, almeno in parte, l’eccitazione di una loro performance.

I sei ragazzi vennero ingaggiati al Fillmore per le sere di venerdì 12 e sabato 13 Marzo per due show a sera assieme a Johnny Winter e all’Elvin Bishop Group (era comune, per quei tempi, avere più band in cartellone la stessa giornata).

Furono due giornate di musica memorabile e da subito Tom Dowd, che registrò tutti i concerti, si rese conto di avere in mano una vera bomba, la testimonianza di una eccezionale rock band all’apice della propria forma.

Duane Allman, leader indiscusso e genio assoluto della chitarra, arrivava esaltato dopo l’esperienza ai Criteria Studios dove aveva contribuito, e non poco, a rendere grande il disco di Eric ClaptonLayla And Other Assorted Love Songs” e rendendosi conto di quanto, effettivamente, fosse bravo. Le due giornate erano la somma di una serie di eventi che rasentavano il misticismo, la perfezione e la sincronia musicale che trapelano da quel “Live At Fillmore East” che ancora oggi è considerato uno dei migliori album dal vivo della storia.

The Allman Brothers Band – “Fillmore East Recording”

Dobbiamo ammettere che, come quasi sempre, la scelta dei brani che confluirono nello storico doppio LP è stata la migliore e ne è una conferma l’intro di “Statesboro Blues” con la slide di Duane Allman che apre un mondo nuovo di suonare la chitarra.

Il brano di Blind Willie McTell, già nel repertorio dei fratelli Allman ai tempi degli Hour Glass (versione ispirata da quella di Taj Mahal), parte in quarta e fa decollare da subito il disco in un viaggio da brividi partendo dal blues per arrivare ai confini dell’ignoto passando dal jazz e dalla psichedelia pura.

Un tripudio di emozioni tra delicatezze e cattiverie sonore che marchieranno a fuoco la band rendendola immortale. Le successive versioni dei brani di Ellmore James, “Done Somebody Wrong”, di T-Bone Walker “Stormy Monday Blues” e di Willie Cobbs “You Don’t Love Me” testimoniano come il blues sia alla base di tutto, ma anche che l’intelligenza e il voler aprire ogni porta creino quello che dovrebbe essere la continuità di un genere che necessita di potersi sempre attualizzare e contestualizzare.

Dal blues il percorso all’interno dei brani della band ha avuto enormi evoluzioni che sfociano in “Hot ‘Lanta”, un trascinante strumentale scritto da Gregg e che si sviluppa su una progressione di accordi che danno modo a Barry Oakley di dimostrare a tutti che, forse, era lui il miglior bassista di quei tempi. Il finale, poi, è un tripudio di emozioni tanto da lasciare sbalordito il pubblico in sala.

Sale in cattedra Dickey Betts, altro sommo chitarrista che ha saputo dialogare con Duane in modo sublime e che, dopo la tragica scomparsa di Sky Dog prenderà in mano le redini della band, introducendo la band nella sua “In Memory Of Elizabeth Reed”.

Da subito sembra che sul palco del Fillmore assieme ai capelluti ragazzi del Sud siano presenti Miles Davis, John Coltrane e “Cannonball” Adderley in una rivisitazione rock del capolavoro davisiano “Kind Of Blue” con un susseguirsi di passaggi dal suono maestoso e ruggente e le due batterie di Butch Trucks e Jaimoe a creare un tappeto sonoro esemplare grazie ai ben distinti stili e all’abilità necessaria per saperli fondere senza arrivare a compattarne il suono.

A conclusione di questo album e ad occupare l’intera quarta facciata troviamo “Whipping Post”, uno dei capolavori di Gregg Allman – forse la sua più bella canzone di sempre – che parte col martellante giro di basso di Barry e sfocia in una versione ben differente da quella apparsa sul primo lavoro d’esordio in studio.

Gregg canta con un’intensità da brividi, Duane e Dickey si scambiano assoli che passano dall’essere furibondi a dolci e sognanti per arrivare al riff finale in grande crescendo e ritornare sulla terra grazie al sustain delle note di Duane che, assieme ai timpani da orchestra di Butch, conclude il disco sfumando sulle note di apertura di “Mountain Jam” che ritroveremo su Eat A Peach dell’anno seguente. Questo brano arriva da una folk song di Donovan (“There Is A Mountain”) che Duane aveva suonato per la prima volta nei primi mesi del 1970 sempre al Fillmore di New York durante una jam coi Grateful Dead e Peter Green dei Fletwood Mac.

Eccocela in oltre 33 minuti di grandissima musica con un intermezzo centrale dove la band si allontana dal palco lasciando i due batteristi a scambiarsi patten di grandissima potenza ed eleganza, successivamente raggiunti dal basso di Barry Oakley che, con un fantastico assolo, richiama la band che riparte con la slide di Duane con la chitarra accordata, però, in tonalità standard (cosa assai rara per lui).

Ne esce un sognante tappeto fatto di note delicate con la band che lo asseconda perfettamente fino ad entrare in una struggente “Will The Circle Be Unbroken?” con la Gibson Les Paul di Sky Dog che raggiunge uno dei massimi apici della sua carriera, quasi a presagire il triste futuro.

Tutti questi brani, più una versione dello slow blues “Drunken Hearted Boy” eseguita assieme ad Elvin Bishop, sono presenti in questo “Fillmore East Recording” assieme a tutte le altre versioni dei sopra citati brani non inclusi nell’album originale.

La domanda, allora, è: perché acquistare questo cofanetto se le versioni migliori dei brani sono già sul mercato? La risposta è molto semplice.

Perché il cofanetto è veramente molto bello, ad iniziare dall’aspetto grafico e costa pochissimo. La musica, poi, è tutta di altissimo livello, con parecchi brani in versione inedita e differenti tra loro e la presenza dell’intero set della serata del 27 giugno che rappresentava la chiusura definitiva del locale newyorkese.

Il box, di una forma poco inferiore a quella di un LP, utilizza la storica copertina con la foto scattata da Jim Marshall che non poco faticò per mettere i componenti della band in posa, cosa che gli stessi odiavano fare. I volti sorridenti e felici sono dovuti al fatto che Duane si era alzato di scatto per andare incontro ad un “amico” e ritornando posò con in mano una bustina di cocaina.

All’interno possiamo trovare, oltre ai 6 CD, un volume di 40 pagine dedicate a quelle memorabili serate. Chi di voi non avrebbe voluto oltrepassare quell’ingresso, fermarsi alla biglietteria ed acquistare il lasciapassare per quel paradiso che ti accoglieva con le luci dei The Joshua Light Show e restare avvolti dal suono degli Allman Brothers? Questa era la magia del Fillmore.

Peccato che al suo posto ora ci sia una banca che, certamente, non potrà regalare sogni a nessuno.

[Antonio Boschi]


The Allman Brothers Band – “Fillmore East Recording” cover box


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