Il mio personalissimo rapporto con l’artista David Bowie (1947-2016) è a dir poco conflittuale. Diciamo che ad un fanciullesco ed incondizionato amore è subentrata una sensazione di quasi odio, come se mi fossi sentito ingannato dal nuovo suono che – passata la collaborazione con Brian Eno – iniziava a strizzare l’occhio alle quelle infauste sonorità che caratterizzeranno gli anni Ottanta, mitici per tanti, orribili per me. Quindi via a vendere pressoché tutti gli album salvandone solo alcuni che di recente hanno ricominciato a girare sul mio giradischi. Tra questi – ovviamente – non poteva mancare quello che da ragazzo ho ascoltato con maggior assiduità, ovvero “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars” uscito nel giugno del 1972 per l’etichetta RCA Victor.
Bowie in quegli anni stava costruendo, non senza fatica, una propria identità musicale, dopo un album d’esordio – ancora a nome David Jones – che non diede grossi risultati ma che lasciava presagire le qualità artistiche dell’istrionico artista londinese. Con “Space Oddity” (oggi il mio preferito) del 1969 arrivava un netto salto in avanti in qualità, e nel quale emerge la passione e la stima per Bob Dylan, ma è con il seguente “The Man Who Sold The World” che avverrà il fondamentale incontro col chitarrista Mick Ronson personaggio determinante per elevare l’arte di David Bowie.
Erano anni particolari per la musica inglese, divenuta quasi capitale mondiale del rock, che dopo aver “salvato” il blues con la propria versione “british”, ha dato il via all’hard rock come evoluzione della stessa, ma soprattutto si era aperta a talmente tante e tali contaminazioni da creare un suono molto complesso, vedi la scena di Canterbury e, più di tutti, il progressive che aveva messo in ombra quella forma di canzone relativamente semplice che stava alla base dell’arte dello stesso Bowie.
“Hunky Dory” del 1971 è un chiaro esempio, ma il grande successo fatica ad arrivare e, allora, ci voleva il colpo di scena. Ed eccolo in un extraterrestre androgino, assessuato, autocompiacente e autodistruttivo, che risponde al nome di Ziggy Stardust e viaggia con i Ragni di Marte, ma non è altri che il Major Tom di “Space Oddity” ritornato su una terra talmente cambiata da venir scambiato, lui, per un alieno.
Vallo a spiegare ai tanti fan dei Måneskin che tutto questo ha già mezzo secolo sulle spalle. L’intelligenza di Bowie, ispirandosi a Mark Bolan e certamente contaminato dai Velvet Underground di Lou Reed è stata quella di andare controcorrente, di rischiare il tutto per tutto e di portare gli spettatori su un nuovo livello di ascolto musicale, più diretto, quasi una sublimazione del rock’n’roll.
Una formazione minimale – quella che si è chiusa nei Trident Studios della capitale britannica tra la fine del 1971 e i primi due mesi dell’anno seguente – che vede David Bowie alla voce, chitarra ritmica e sax, Ronson a fare un po’ tutto ad esclusione della sezione ritmica affidata agli eccellenti Trevor Bolden (basso) e Mick Woodmansey (batteria). Unica guest Dana Gillespie (la Maria Maddalena in Jesus Christ Superstar) ai cori in “It Ain’t Easy”.
Forse riascoltato oggi, dopo 50 anni, l’album può far pervenire ad un attento ascoltatore alcune debolezze, ma gli show di quegli anni degli Spiders From Mars erano trascinanti e con un sound incredibile, basti vedere il film/concerto di D. A. Pennebaker che ci racconta il live all’Hammersmith Odeon di Londra del 3 luglio 1973, definitivo funerale per Ziggy e i suoi ragni che da quel momento non esisteranno più (nemmeno come band al fianco di Bowie).
L’album, comunque, sciorina una serie di canzoni (11 in totale) una più bella dell’altra, già dall’iniziale “Five Years”, un distopico racconto sulla fine del nostro pianeta.
Dopo “Soul Love” arriva la grinta di “Moonage Daydream” cartina tornasole sulle abilità chitarristiche di Mick Ronson ad anticipare uno dei brani più amati del cantautore inglese, quella “Starman”, che segnerà la svolta artistica di Bowie.
“It Ain’t Easy” è l’unico brano non a firma del britannico, ma proviene dal repertorio del cantautore statunitense Ron Davies e ha l’onore di chiudere la prima facciata dell’album.
Girato il vinile la puntina incontra subito le note pianistiche di “Lady Stardust”, omaggio a Bolan e a i suoi T. Rex, icone del glam rock.
Le note pianistiche di Ronson le riscopriremo poco dopo ad inventare “Transformer”, uno degli storici album di Lou Reed e come in “Lady Stardust” anche in “Star” saranno determinanti per consegnare Ziggy Stardust nell’élite della musica rock.
“Hang On To Yourself” è un brano trascinante, con un riff che ti prende da subito e che servirà per aprire gli infuocati live del periodo e a prepararci al trittico finale con “Ziggy Stardust” che ci racconta un la storia del protagonista, seguita dalla recuperata “Suffraggette City” che, in origine, era destinata ai Mott The Hopple che preferirono un altro brano di Bowie (“All The Young Dudes”) per arrivare al grande successo.
Chiude questo ellepi “Rock’n’Roll Suicide”, uno dei capolavori di tutta la carriera di Bowie, brano drammatico e nel quale possiamo ammirarne tutte le qualità canore oltre che di scrittura.
Ziggy Stardust non poteva vivere in eterno sul nostro pianeta, ma è stato bello aver potuto compiere un volo sulla sua colorata astronave, soprattutto se avevi 13 anni e altrettanto bello sognare di poter ricevere una telefonata da quella cabina al 23 di Heddon Street, nei pressi di Piccadilly Circus.
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