Siamo nell’autunno del 1970 e per capire la grandezza dei Led Zeppelin basta ascoltare come partono i loro album. Da “Good Times, Bad Times” del primo album (1969) a “Whole Lotta Love” dal secondo (sempre 1969) fino a “Immigrant Song” che ci introduce quest’opera che ci arriva col numero III. Eccoci servita su un piatto d’argento una vera e propria lezione di come si deve dare la giusta carica verso l’ascolto di un disco di rock.
Del meraviglioso quartetto inglese abbiamo letto di tutto e di più e persino i sassi conoscono Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones e il compianto John Bonham, capaci di inventare un genere definito hard rock e allo stesso tempo di prenderne immediatamente le distanze per non essere mescolati con altre band nate sull’onda emotiva delle potenti note dei quattro amici.
Loro sono i Led Zeppelin e la loro è la musica dei Led Zeppelin, stop, poi – se proprio vogliamo – possiamo dire che Page & Co. sono stati assai bravi a “prendere spunti” (a volte al limite del plagio) verso i bluesmen del passato o, anche, artisti a loro quasi contemporanei, ma questo non deve in alcunché modo minare la grandezza della band inglese.
Album III non ricevette critiche del tutto lusinghiere, anzi in alcuni casi furono quasi feroci nonostante sia diventato in breve tempo un “million-sellers album”. Diciamo che manca gran parte della meravigliosa sorpresa regalata dai primi due album, col mirino che varia da un rock blues sanguigno ad una rivisitazione del folk britannico e americano fatto con professionismo ma ben lungi dal voler riproporre quelle atmosfere particolarmente care ai fedeli dei suoni delle tradizioni.
Reduci da quindici mesi di quasi ininterrotti tour (cinque negli USA) i quattro ragazzi hanno il desiderio di tornarsene a casa, chi in famiglia chi – vedi Page e Plant – a riposare e a ricaricare le batterie in uno sperduto cottage tra le montagne gallesi.
Assieme al cantante e al chitarrista ci sono 3 roadie, la moglie di Plant, una giovanissima groupie che accompagnava Page e un registratore a batterie (visto che a Bron-Yr-Aur non c’era elettricità e acqua corrente) perché l’Atlantic ha intenzione di fare uscire a breve un nuovo album di questi loro protetti diventati una vera e propria macchina da soldi.
Il terzo album dei Led Zeppelin
Nel cottage vengono assemblate idee nate durante il recente tour e cose nuove, con ispirazioni tratte dalla mitologia nordica (è risaputo che Tolkien era uno delle loro maggiori influenze).
L’iniziale e arrembante “Immigrant Song”, ad esempio, rappresenterebbe violenti invasori vichinghi che (qui aggiungo un personale purtroppo) influenzeranno una pletora di seguenti band metal. Una canzone molto bella, dal riff inconfondibile che dal vivo saprà ulteriormente evolversi come testimoniato da album come “BBC Sessions”, “How The West Was Won” o uno dei tantissimi bootleg in circolazione. Non a caso per almeno due anni questo brano aprirà i concerti dei Led Zeppelin.
La seguente “Friends” ci porta verso nuovi lidi e atmosfere, molto vicine al sound californiano di CSN&Y con intarsi arabeggianti che iniziano a far capolino, mentre “Celebration Day” – che entra su un rombo di bombardiere che sfumava la precedente song – è puro Zep rock.
Ma è con “Since I’ve Been Loving You” che si tocca la vetta massima dell’album ed è, senz’altro, una delle più belle canzoni di tutta la loro carriera. Qui si torna prepotentemente al blues, al blues bianco della rinascita, con la chitarra di Page che sa essere sexy e feroce con uno degli assolo più belli della storia della musica, mentre Plant canta come un dio e la sezione ritmica dimostra di essere una delle migliori in circolazione. Il brano è registrato in diretta, senza sovra-incisioni e testimonia lo stato di grazia del quartetto.
Chiude il lato A di questo album dalla bizzarra copertina – ideata dall’artista britannico Richard Drew, in arte Zacron – “Out On The Tiles”, ancora un brano in perfetto Zep style.
Voltato il vinile si entra nella sezione più “bucolica” della discografia zeppeliniana, quella amata e contestata, dove i suoni acustici diventano padroni assoluti.
“Gallows Pole” arriva dalla tradizione, che Page recupera da un vecchio disco Folkways ed eseguita da Fred Gerlach. Entrano in gioco strumenti nuovi, come la chitarra a 12 corde, banjo e violino a raccontarci la storia dell’Appeso dei Tarocchi, tra i tanti interessi esoterici di Page.
“Tangerine” – che segue – è un brano ritenuto, a mio avviso a torto, minore e credo abbia ancor oggi grandi potenzialità. Una ballata melanconica che arriva dal periodo Yardbirds di Page e che qui vede la luce in una versione in stile più californiana.
Tocca a “That’s The Way” che risente totalmente delle condizioni ambientali nei quali Page e Plant si erano immersi nel loro isolato ritiro gallese e che presenta una parca strumentazione come, presumibilmente, richiamava l’ambientazione che si ripete nella parte iniziale della successiva “Bron-Y-Aur Stomp”, dal titolo errato per un errore di stampa, che strada facendo cresce di intensità portandoci al blues della conclusiva “Hats Off To (Roy) Harper”.
Un blues improvvisato che trae spunto da Bukka White e il suo bottleneck style e che la band dedica a Roy Harper, songwriter inglese particolarmente apprezzato da Page.
L’album, le cui sessions di registrazione iniziarono il 19 maggio in una vecchia casa di campagna nello Hampshire chiamata Headley Grange utilizzando lo studio mobile di registrazione dei Rolling Stones, verrà terminato presso gli Island e Olympic Studios di Londra con ulteriori ritocchi effettuati durante il sesto tour americano agli Electric Lady Studios di New York (missaggio finale di Gallows Pole) e agli Ardent Studio di Memphis (missaggio finale e mastering) e arriverà nei negozi il 5 ottobre del 1970, prodotto da Jimmy Page ottenendo numerosi riconoscimenti tra dischi di platino e d’oro.
[Antonio Boschi]
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