Anche se è nato il 4 dicembre del 1944, per Christopher “Chris” Hillman il tempo pare non passare mai. Ha, infatti, ancora una interessante attività live nonostante non abbia più inciso album dopo l’eccellente album “Bidin’ My Time” – uscito nel 2017 per la Rounder Records – e lo ha fatto divertendosi, così come – credo – abbia trascorso gran parte della propria vita e della propria carriera artistica.
Una carriera, la sua, vissuta forse un po’ troppo all’ombra di altri artisti dal carattere certamente più predominante, forse anche problematico – vedasi per esempio Roger McGuinn, suo partner nei Byrds.
Ma, sinceramente, a conti fatti con la vita forse le scelte intraprese da questo simpatico artista californiano sono da considerarsi vincenti.
Apprezzatissimo nell’ambiente musicale del country rock, del folk e del bluegrass Hillman ha iniziato ad appassionarsi da giovanissimo alla musica grazie alla sorella maggiore che lo ha introdotto nel fantastico mondo dei New Lost City Ramblers e affini, contribuendo a creare nel giovane rampollo di famiglia quell’animo legato alla folk music che va dall’old-time al bluegrass e che, successivamente, si trasformerà nella cavalcata country rock del quale è certamente uno dei principali artefici con band come i già citati Byrds ma anche Flying Burrito Brothers, Desert Rose Band senza dimenticare il fantastico progetto Manassas assieme ai texani Stephen Stills e Al Perkins.
Chris Hillman – Morning Sky
Quest’ultimo resterà legato a Hillman e lo ritroveremo al suo fianco, con le sue varie steel guitars, in questo “Morning Sky” uscito nel 1982 per l’etichetta di Englewood (New Jersey) Sugar Hill (SH 3729) con la produzione di quella vecchia volpe di Jim Dickinson (1941-2009), che di musica se ne intendeva parecchio.
Il 1982 non è certamente un anno che resterà agli annali ma qualche buon disco ce lo ha fortunatamente regalato e questo “Morning Sky” è senz’altro nella lista di quei dischi da ricordare.
Un ritorno alle origini acustiche e rilassate con una manciata di brani di grande spessore come l’iniziale “Tomorrow Is A Long Time” che ci arriva dall’archivio di tal Bob Dylan che poteva permettersi di tenere un gioiellino come questo in un cassetto per ben 8 anni, ovvero dal 1963 anno della sua creazione fino al 1971 quando vide la luce per la prima volta nel Vol. II delle sue Greatest Hits. Il brano parte con le chitarre di Kenny Wertz ed Herb Pedersen e il bellissimo gioco di voci per una melodia senza tempo che richiama “Last Thing On My Mind” di Tom Paxton, autore particolarmente amato da Dylan stesso.
Nel secondo brano, “The Taker” fa la sua comparsa il banjo suonato da Bernie Leadon, unica apparizione per l’ex Eagles. Un brano del ’71 uscito dalla coppia Kris Kristofferson e Sheldon Allan “Shell” Silverstein e contenuto nell’album del texano “The Silver Tongued Devil And I” qui vive di luce propria, spogliandosi dalle vesti messicane dell’originale.
Molto delicata e col mandolino di Hillman in primo piano “Here Today And Gone Tomorrow” di Wally Fowler (1917-1994) che ci introduce al bellissimo brano che da il titolo all’album.
Dal repertorio di quel Dan Fogelberg (1951-2007) che Hillman ripagherà partecipando al suo interessante “High Country Snows” del 1985, assieme a tanti altri big della musica bluegrass, americana. “Morning Sky” è veramente un piccolo gioiellino, col banjo di Pedersen, le perfette melodie vocali e il violino di Byron Berline che fanno elevare il brano un gradino sopra a tutti (originale compreso), anche se a contendersi la palma della migliore deve vedersela con la seguente incantevole “Ripple” dai solchi deadiani e di quel gran disco che risponde al nome di “American Beauty” dove Jerry Garcia (1942-1995) e soci ci hanno fatto rivivere l’epopea della frontiera alla loro maniera.
Il brano si porta via la prima facciata lasciando l’ascoltatore nel dubbio se posizionare nuovamente la puntina ad inizio della prima traccia oppure voltare il vinile per affrontare la Side B, cosa che facciamo puntualmente per andare ad incontrare “Good Time Charlie’s Got The Blues”, l’hit di Danny O’Keefe del 1972 che ha regalato popolarità al cantautore di Spokane.
Si prosegue, sempre su un’onda di country californiano, con “Don’t Let Your Sweet Love Die” e “Mexico”, quest’ultima scritta da John David Southern suo compagno di avventura nei Southern-Hillman-Futay Band che incisero il brano nel loro secondo album del 1975 “Trouble In Paradise”.
Il livello di questa seconda facciata si alza con gli ultimi due brani, “It’s Happening To You” dal repertorio degli anni ’80 di John Prine e con la conclusiva “Hickory Wind”, magnifico ritorno al passato verso quel “Sweetheart Of The Rodeo” che aveva sancito la rinascita dei Byrds grazie anche a questo brano, scritto dall’accoppia Parsons/Buchanan, indubbiamente tra i migliori dell’intero album e degna conclusione di questo disco solista di Chris Hillman, indubbiamente tra i migliori della sua intera discografia.
[Antonio Boschi]
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