Arlo Guthrie – Hobo’s Lullaby recensione di Antonio Boschi

Se non ho fatto il servizio di leva militare è anche per merito di Arlo Guthrie.

Non c’è niente da fare, i Guthrie l’hanno nel DNA la voglia di lottare contro le ingiustizie sociali e usano la musica per cantare a tutto il mondo che si può costruire un mondo migliore, basta volerlo.

Lo faceva il grande Woody, uno dei più importanti di tutta la storia della musica mondiale, il figlio Arlo e – oggi – i figli di quest’ultimo. Insomma più generazioni votate a questa missione.

Arlo Guthrie, nato a Brooklyn nel 1947, è sempre stato una figura fondamentale per i miei ascolti musicali, fin da ragazzino quando ascoltavo a non finire l’album del 1973 “Last Of The Brooklyn Cowboy”, per me uno di quesi dischi da isola deserta..

Dopo il grande successo con l’album di debutto “Alice’s Restautant”, del 1967 e il relativo film (una vera e propria invettiva contro la leva obbligatoria e la Guerra in Vietnam), il giovane Arlo ha continuato a fare musica incidendo gli album “Arlo” (1968), “Running Down The Road” (1969 con la bella “Coming Into Los Angeles” che presentò anche a Woodstock), Washington County (1970) fino a questo “Hobo’s Lullaby” uscito anch’esso per la Rounder Records (MS 2060) che fa fare il definitivo salto di qualità a Guthrie.

Arlo Guthrie e “Hobo’s Lullaby”

Ancora una volta un nutrito numero di amici sono al suo fianco avvicendandosi negli studi di registrazione tra l’ottobre e il dicembre del 1971. Tra coloro non si può non notare da subito la magnifica chitarra di Ry Cooder che apre l’iniziale “Anytime” col suo bottleneck che scivola sul manico della sua chitarra Martin regalando quei brividi che lo renderanno uno dei più bravi chitarristi di tutti i tempi.

Arlo, da par suo, canta questa bella canzone di Herbert Lawson prima di portarci ad una delle canzoni che lo hanno reso celebre, quella “City Of New Orleans” dell’amico Steve Goodman (1948-1984) qui resa di una bellezza senza fine.

Dal repertorio dell’interessantissimo songwriter Hoyt Axton (1938-1999) eccoci a “Lightning Bar Blues” con ancora Cooder e il jazzista Wilton Felder (1940-2015) al sax a creare atmosfera col suo solo centrale.

James Houston Davis (1899-2000) nella sua lunga carriera ha composto questa ”Shackles And Chains” che il bravo Arlo ha re-interpretato in chiave country col contributo di Byron Berline al violino.

Del padre Woody appare un solo brano, ma questa “1913 Massacre” è sublime in tutta la sua semplicità, solo chitarra e organo in sottofondo (Spooner Oldham) a conferire drammaticità a questa ballata che ci narra della terribile notte del 24 dicembre 1913 quando 81 persone – lavoratori in sciopero da 6 mesi con mogli e figli – perirono nella Italian Hall della miniera di rame di Calumet, nel Michigan, in un massacro organizzato dai padroni delle miniere stesse.

Ancora Hoyt Axton e il suo stupendo gospel “Somebody Turned On The Light” con Jim Dickinson al piano e un coro meraviglioso che regala al brano un’atmosfera magica che si porta via la prima facciata del disco.

La seguente “Ukulele Lady” è stata composta a 4 mani da Richard A. Whiting (1891-1938) e Gus Kahn (1886-1941) e ci regala una perla alla chitarra elettrica col grande Clarence White (1944-1973) e il suo inconfondibile stile.

Non poteva mancare Bob Dylan come artista da omaggiare, ed ecco la stupenda “When The Ship Comes In” da “The Time They Are A-Changin’” con un magnifico organo a sostenere la chitarra acustica, mentre una delicata batteria tiene il tempo.

Tocca a due brani composti dallo stesso Arlo portarci ad oltrepassare la metà della seconda facciata del vinile. Il primo si intitola “Mapleview (20%) Rag” ed è un veloce e strumentale brano bluegrass che vede ancora la presenza di White (chitarra), Berline (mandolino), Doug Dillards (1937-2012) al banjo e Gib Guibeau (1937-2016) al violino.

Il secondo brano è la perla più lucente dell’intero album grazie al lavoro alla chitarra elettrica da parte di un Ry Cooder che con la sua Fender Stratocaster riesce a farci vedere il paradiso. Aggiungete che “Days Are Short” è bellissima, con un coro perfettamente incastonato tra le note slide, e il miracolo è compiuto. Credo di non sbagliare se dico che è uno dei momenti più alti nella carriera del chitarrista di Los Angeles.

Da un capolavoro all’altro ed ecco, a chiudere questo incantevole album, la title track scritta dal texano Goebel Reeves (1899-1959) e interpretata in passato sia da Woody che da tanti altri artisti. Una dolce ode al vagabondo e alla sua tribolata vita tra un treno e l’altro che ci riporta a tante storie cantate da Woody o l’amico Cisco Houston oppure tra le righe di indimenticabili libri come “La Strada” di Jack London.

“Hobo’s Lullaby” chiude come meglio non poteva un album che non ha certamente avuto la fortuna che meritava, ma il buon Arlo dalla sua magnifica chiesa sconsacrata nel Massachusetts non credo si sia strappato i capelli che, invece, continuano a mostrare la loro bianca lucentezza sui palchi a cantare canzoni di protesta come quando aveva vent’anni.

[Antonio Boschi]


Arlo Guthrie – Hobo’s Lullaby cover album


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