Bob Dylan – Oh Mercy recensione di Antonio Boschi

Partiamo da un dato di fatto: Bob Dylan è il numero uno! Su questo non si discute.

Anche senza amarlo Dylan è il numero uno. Per quello che ha fatto, per quello che ha detto, per come l’ha fatto, per la sua non simpatia, per il suo carattere, per tutti quelli che ha contagiato. Perché è Dylan.

Se vuoi ascoltare un gran disco infili la mano alla cieca nello scaffale nella sezione dove c’è Dylan (li tenete in ordine i vostri dischi, vero? O vi devo insegnare tutto?) e ne peschi uno del periodo che va dal 1962 (Bob Dylan) al 1976 (Desire) e non sbagli. Sono 17 album e almeno 11 sono capolavori e non è che dopo abbia fatto schifo, tutt’altro.

Ad esempio questo “Oh Mercy”, trentaquattresimo disco (live e raccolte comprese) uscito nel 1989 (Columbia OC 45281) è fantastico, con atmosfere torride, un suono scarno e molto realista.

Erano quelli anni particolari per la musica, senza fare sterili discussioni se fossero meglio o peggio (ognuno ha il proprio gusto), sicuramente non erano anni facili per tutte quelle “icone” del rock anni Sessanta e Settanta caduti, in gran parte, in una fase creativa spesso scarsa rispetto agli anni della gioventù e del massimo periodo artistico. Dylan e pochi altri hanno avuto la capacità di saper restare a galla, vedere l’evoluzione della musica non come un nemico assoluto e, tantomeno, come una strada da percorrere a prescindere.

Tornando al disco in questione buona parte del merito va al produttore Daniel Lanois che ha regalato all’album un suono parco, mettendo in evidenza la bellissima voce del songwriter del Minnesota (si, per me la voce di Dylan è bellissima).

C’è tutta l’atmosfera di una città magica quale New Orleans e di tutta la Louisiana, vibrante, notturno, intimista. Un disco perfetto dove ad aiutare Mr. Zimmerman troviamo artisti del calibro di Mason RuffnerBrian StoltzCyril NevilleWillie GreenTony HallDaryl JohnsonPaul Sinegal oltre allo stesso Lanois.

Ascoltatelo tutto d’un fiato, verrete travolti da brani di incredibile bellezza, dall’iniziale “Political World”, dal cajun di “Where Teardrops Fall” e dalla seguente “Everything Is Broken”.

Dylan cala l’asso con il gospel da pelle d’oca “Ring Them Bells”, la desertica “Man In The Long Black Coat”, uno delle massime vette dell’album, solo per stare sulla prima facciata.

Dopo una sequenza di questo genere non sai se girare il vinile o riposizionare la puntina all’inizio. Ma la voglia di ascoltare il resto è tanta che le atmosfere “Most Of The Time” ti catturano e ti traghettano nella sussurrata “What Good Am I?”.

Disease Of Conceit” è una delle mie favorite, inizio pianistico, con un Hammond in sottofondo e l’arrivo di un’arguta chitarra nel finale. “What Was It You Wanted” è forse leggermente sottotono (ma in qualunque altro disco risulterebbe una delle migliori) e ci accompagna alla conclusiva, toccante “Shooting Star” che rappresenta alla perfezione il Dylan style.

Tanto di cappello per questo “Oh Mercy”, uno di quei dischi che dovrebbe passare la mutua e poche storie, il Nobel è strameritato.

[Antonio Boschi]


Bob Dylan – Oh Mercy cover album


2 Responses

  1. Ciao, ho letto la recensione tutta di un fiato, finalmente qualcuno che dice che la voce di Bob Dylan e bellissima, a me piace un sacco, anche perché e cambiata spesso nel corso degli anni

  2. Ciao Stefano,
    grazie di aver letto la recensione, sono felice ti piaccia la voce di Dylan.
    Come scrivo a me piace un sacco perché ha sempre avuto una personalità enorme, che rifletteva il suo essere in quel determinato periodo e – poi – io amo quelle che vengono considerate “voci brutte” o meglio dire “imperfette”, perché la perfezione nella musica toglie la bellezza.
    Ovviamente è un parere personale

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