Loudon Wainwright III – Album III

Loudon Wainwright III è un personaggio tutto particolare, caratterizzato da un’attività artistica che lo ha visto principalmente nel ruolo di cantante e musicista senza disdegnare un ruolo da attore con alcune partecipazioni a film e a serie televisive, la più importante in un ruolo secondario in M*A*S*H*, molto popolare negli anni ’70.

Originario di Chapel Hill, nel North Carolina, Loudon Snowden Wainwright III viene alla luce il 5 settembre del 1946 – figlio di un editorialista e redattore della storica rivista newyorkese Life e di una insegnante di yoga – e crebbe a Bedford, nella contea newyorkese di Westchester.

Verso la fine degli anni Sessanta ritornò a suonare la chitarra e a scrivere le prime canzoni, ispirato da un vecchio pescatore di aragoste a cui dedicò proprio la sua prima composizione “Edgar”.

Era l’inizio di una nuova carriera, ben differente da quella di operaio presso il cantiere navale nel quale lavorava.

Una carriera che lo portò a spostarsi a Boston e a New York per esibirsi nei locali folk clubs dove venne notato da Milton Kramer che divenne il suo primo manager e che gli permise di firmare il suo primo contratto con una label, addirittura la celebre Atlantic con la quale pubblicò l’omonimo album di debutto nel 1970.

Un lavoro acustico e solista dove inizia immediatamente a farsi strada il suo sarcastico senso dell’umorismo, che contraddistinguerà la maggior parte delle opere di Loudon, che sapranno essere spiritose e – allo stesso tempo – toccanti.

Sempre per l’etichetta fondata da Ahmet Ertegün e Herb Abramson l’anno seguente viene pubblicato “Album II”, ancora una volta un progetto in solitaria e che chiude la collaborazione con la label con sede a New York per passare alla storica Columbia Records che pubblicherà i seguenti tre progetti di Loudon Wainwright III.

Loudon Wainwright III – Album III

Terza prova discografica, datata novembre 1972, che dopo due interessanti prove acustiche arriva ad elettrificare il proprio suono, soluzione che risulta ancora oggi formidabile.

Come al solito il suo lavoro è connotato da testi surreali ed ironici tipo nella bellissima e famosa “Dead Skunk” che, aprendo il lato A del vinile, racconta di una puzzola schiacciata con l’auto costringendo il protagonista a chiudere il finestrino e a tapparsi il naso per la tremenda puzza.

Un brano che diverrà a breve una hit ma, anche, un tormento in quanto continuamente richiesta per tutto il restante della carriera, nonostante il tantissimo materiale di grande interesse a disposizione.

Rimane che “Dead Skunk” è ancora oggi particolarmente bella, con un testo assolutamente triste su di una melodia particolarmente allegra grazie all’utilizzo di chitarre, violini e banjo.

La seguente “Red Guitar” è – al contrario – lenta e melodiosa e, nonostante il titolo, vede Loudon da solo al piano a raccontarci di quella notte nella quale distrusse la sua chitarra «come avrebbe fatto Pete Townshed».

East Indian Princess” è bellissima, tre minuti di grande rock con un magnifico assolo di chitarra su una struttura honky tonk grazie al pianoforte di Teddy Wender e la steel guitar nelle mani del grande banjoista Bill Keith, con la bella voce di Loudon in grande evidenza.

Già questi primi brani ci fanno capire la levatura di questo album che prosegue con “Muse Blues”, che inizia lenta per, poi, decollare con una chitarra acustica che ci riporta a quelle sonorità di fine anni ’60, alla Country Joe o Arlo Guthrie, per intenderci.

In “Hometeam Crowd” ritorna la band a supportare Loudon in questo brano dove il protagonista, in modo parecchio ironico, parla della disperazione per le sconfitte delle sue squadre newyorkesi.

Chiude il lato A “B Side”, altro sarcastico brano che parla di essere un’ape («Unlike the skunk, I do not smell, But I have a thing and it stings like hell…»).

Il secondo lato è aperto da “Needless To Say”, un brano intimo e triste con un magnifico gioco di chitarre acustiche ed il corno francese di David Amram a regalare drammaticità al brano.

Somokey Joe’s Café” è ancora un bel blues eletterico dove il protagonista rischia la pelle per opera di un cattivo personaggio con tanto di coltello in mano.

Tornano le atmosfere acustiche e solitarie in “New Paint” che racconta di un primo appuntamento con una donna, come solo Wainwright sa fare.

Trilogy (circa 1967)” è una bella ballata pianistica che ci accompagna all’ubriaca “Drinking Song” e da tutto quello che si fa quando si alza troppo il gomito.

Chiude questo album “Say That You Love Me”, bella e dal ritmo vivace e semplice ma che colpisce subito e ci permette di lasciare questo “Album III” con un sorriso e la consapevolezza di aver tra le mani un disco che ha saputo resistere al tempo, nonostante l’oltre mezzo secolo di vita, che non è poco, soprattutto se pensiamo a quella povera puzzola spiattellata in mezzo alla strada.

[Antonio Boschi]


Loudon Wainwright III – Album III cover


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