Nonostante una carriera che lo ha visto spegnere e superare le 50 candeline Tom Rush è ancora oggi uno di quegli artisti non meritatamente popolari (soprattutto in Italia) a discapito delle sue qualità di songwriter ed interprete di brani folk e blues della tradizione statunitense.
Nato nel 1941 a Portsmouth nel New Hampshire ha iniziato ad esibirsi ventenne mentre frequenta la Harvard University, il prestigioso ateneo con sede a Cambridge, nel Massachussetts, nell’area metropolitana di Boston. Ed è proprio nella celebre città, sede del movimento per l’abolizione della schiavitù, che avvengono i primi contatti con il folk e la scena locale e, grazie all’intervento dell’amico Paul Rothchild – noto produttore discografico – il giovane chitarrista e cantante iniziò a registrare per la celebre etichetta Prestige Records, nota soprattutto per il jazz ma che non disdegnava promuovere artisti blues e folk di un certo livello qualitativo.
Nel 1962 vide la luce il primo album “Tom Rush An The Unicorn” seguito, nel 1963, da “Got A Mind To Ramble” e – due anni dopo – da questo “Blues, Songs, Ballads” che denotava una maturità artistica acquisita sia nella voce che nell’esecuzione alla chitarra, grazie alle continue esibizioni nei folk club locali.
Prodotto da Samuel B. Charters e con la sola presenza di Fritz Richmond al washtub bass in “Rag Mama” questa prova discografica può considerarsi una delle più importanti – anche se non la più conosciuta – di questo intelligente singer/songwriter che rilegge alcuni dei classici preferiti della tradizione country e blues americana con una nuova visione interpretativa basata sul vivere ogni brano dandogli personalità invece di ridursi alla semplice re-interpretazione.
Una lezione imparata dai grandi del passato, come Bill Monroe, Roscoe Holcomb o Leadbelly che nella loro carriera avevano cantato tutte le canzoni da loro amate senza farsi influenzare dal genere di appartenenza delle stesse.
Non dimentichiamo, poi, che eravamo in pieno Folk Revival, il movimento di riscoperta delle tradizioni popolari nato dal New Deal Roosveltiano e giunto in quegli anni al suo massimo apice grazie allo sviluppo intellettuale, soprattutto urbano, basato fortemente sulle ricerche etnomusicologiche come quelle svolte da John e Alan Lomax per conto della Library Of Congress.
Tom Rush “Blues, Songs, Ballads” l’album
“Blues, Songs, Ballads” inizia con una versione di “Albama Bound” il celebre brado di Huddie Ledbetter e reso celebre dalle interpretazioni di Cisco Houston e Pete Seeger. Segue una toccante versione di “More Pretty Girl”, il traditional spesso nei repertori di Woody Guthrie.
Si passa dai blues “Sister Kate” – di Clarence Williams e Armand Piron – e la bellissima versione di “Original Talking Blues” dove un bel gioco sui bassi della chitarra – in perfetto flatpicking style – accompagna il lungo testo magistralmente interpretato dalla voce di Rush.
La slide accarezza le corde in “Pallet On The Floor”, altro standard blues di cui non si conosce l’autore ma interpretato da tantissimi grandi artisti, da Mississippi John Hurt a Big Bill Bronzy, Bob Dylan, Doc Watson, David Bromberg, Lucinda Williams fino ai North Mississippi AllStars.
Chiude la prima facciata “Drop Down Mama”, celebre brano di Sleepy John Estes, interpretato con particolare sentimento dal giovane songwriter.
Ancora blues, questa volta dal repertorio di Blind Boy Fuller con la sua “Rag Mama”, ad introdurci al lato B di questo vinile della Prestige (RCF 1004) che anticipa la lunga e bellissima “Barb’ry Allen”, ballata di rara bellezza tra le migliori cose di questo album.
La versione di “Cocaine” risente dell’influenza che il Reverend Gary Davis ha avuto anche su Tom Rush. La seguente “Come Back Baby” è un altro di quei brani che lascia il segno, regalandoci un grande interprete, purtroppo – mi ripeto – troppo poco considerato soprattutto in Italia.
Ci avviciniamo alla fine con due grandi classici del repertorio della tradizione statunitense come “Stackerlee”, basata sull’omicidio di Billy Lyons da parte di “Stag” Lee Shelton, noto criminale divenuto leggendario, e incisa per la prima volta nel 1923 dai Waring’s Pennsylvanians e giunto fino ai nostri giorni (Nick Cave ne ha fatto una bellissima versione assieme ai suoi Bad Seeds, apparsa su “Murder Ballads” del 1996).
Chiude l’arcinota “Baby Please Don’t Go”, interpretata per la prima volta da Big Joe Williams nel 1935 ed ancora un grande classico usato (ed abusato) da parecchi artisti in tutto il mondo.
Questo album è stato ristampato in CD con l’aggiunta di “Got A Mind To Ramble” ed è sicuramente un’ottima occasione per riscoprire uno dei grandi interpreti del folk revival che ha influenzato tantissimi dei cantautori ancora oggi nostri beniamini.
[Antonio Boschi]
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