John Mellencamp recensione di The Lonesome Jubilee di Antonio Boschi

John Cougar Mellencamp, simpatico? Neanche un po’. Bravo? Un bel po’.

Questa potrebbe essere una minimale carta d’identità dell’odierno sessantaseienne songwriter di Seymour, Contea di Jackson, nell’Indiana John Mellencamp che, a quei tempi, usava – per obblighi contrattuali, ma contro la sua volontà – anche il nome d’arte Cougar.

Mellencamp è uno di quegli artisti schietti e genuini che arrivano direttamente alla gente, mantenendo integra la propria personalità, quasi paladini dei perdenti o, comunque, degli “anonimi” rinchiusi all’ombra di una società tritatutto. Una sorta di rocker che snobba il business, con un sound che è un concentrato di Stones e Tom Petty, con un pizzico di Dylan e del Bruce, ma ci metterei anche il miglior John Prine.

Una carriera iniziata nella seconda metà degli anni ’70, ma che deve attendere il 1982 per arrivare al trionfale successo con “American Fool”, disco che lo ha definitivamente lanciato nell’olimpo di quelli che contano.

Ma è coi seguenti “Uh-Huh” del 1983, “Scarecrow” di due anni dopo e questo “The Lonesome Jubilee” che il suono di Mellecamp si spoglia degli inutili orpelli sonori, insulso retaggio di quei tremendi anni ’80, per arrivare a quella maturità musicale che lo hanno fatto diventare una vera icona per parecchie successive generazioni, infatuate del suono “Americana”.

The Lonesome Jubilee, l’album

Il sound che esce dai solchi di questo vinile, prodotto dallo stesso Mellencamp assieme a Don Gehman per l’etichetta di Chicago Mercury Records (832 465-1), è sempre solido ma entrano in modo importante nuove strumentazioni come il violino della bella e brava Lisa Germano, mandolini, banjo, accordeon che portano le nuove canzoni verso stilemi legati alla tradizione popolare statunitense, ulteriore passo per avvicinarsi alla gente comune come il signore ritratto al bancone del bar appena dietro a Mellencamp nella bella foto di copertina.

L’album parte con “Paper In Fire”, una delle più belle, con la robusta batteria di Kenny Aronoff che detta il tempo a questa sorta di country song dall’anima prepotentemente rock dal doppio volto, calmo e furente. Toby Myers al basso viaggia a mille in “Down And Out In Paradise” mentre Christal Taliefero raddoppia molto bene la voce del band leader con le chitarre di Larry Crane a fare un elegante tappeto in sottofondo.

“Check It Out” sa di ballata alla Springsteen, dolce e potente con la fisarmonica di John Cascella in grande evidenza. Altro brano di gran classe. Musica dalla grande vitalità, viscerale confermata anche dalla seguente “The Real Life”, un bel rock col violino a fare la parte del protagonista. Ritmi quasi cajun nella bella “Cherry Bomb” che chiude la prima facciata con un po’ tutti gli strumenti a scambiarsi le parti mentre la batteria di Aronoff picchia senza esitazione e la chitarra elettrica disegna un riff molto alla Richards.

Appena il tempo di voltare il vinile e torniamo immediatamente ad immergerci nel microcosmo cougariano, americano fino al midollo con “We Are The People” dove il rock incrocia uno stridente violino, cosa non del tutto abituale per quegli anni, e si mette al fianco dei più deboli come emerge molto chiaramente dal testo.

La seguente “Empty Hands” è una ballata da grande folk singer così come “Hard Times For An Honest Man”, grande brano, di quelli che vorresti mettere in un juke-box e che mette in risalto i tempi non facili per le persone oneste. “Hotdogs And Hamburger” profuma di Stones e di Dylan fino all’anima e ti cattura dalla prima nota e “Rooty Toot Toot” chiude l’album come meglio non poteva con questa dedica alla figlia Teddi Jo.

Un album assolutamente convincente, fortemente influenzato dalla morte prematura dello zio di Joe per un tumore, e registrato tra il settembre del ’86 e il giugno dell’anno seguente presso i Belmont Mall Studios, nell’omonima cittadina dell’Indiana. Con questo The Lonesome Jubilee Mellencamp ha definitivamente dimostrato di essere entrato di diritto attraverso la porta principale nell’élite dei grandi songwriter americani, come confermerà con il bellissimo “Big Daddy” uscito due anni dopo.

[Antonio Boschi]


John Mellencamp the lonesome Jubilee cover album


2 Responses

  1. Grazie Antonio, con questa recensione mi hai riportato all’ emozione e all’ entusiasmo di quei giorni, quando dischi di questo tipo erano una rarità ma qualcosa ti diceva pure che le chitarre di una volta sarebbero tornate. La cosa bella di questo disco e di questi artisti ( penso ad Hiatt…giusto per rimanere al Midwest) è che se provavi a chiudere gli occhi tra un suono di accordion e uno di violino, tra una chitarra elettrica e un pennywhistle ….sentivi il vento accarezzare le distese di grano, un ruscello scorrere in lontananza e quell’ immenso cielo sul Midwest entrarti nel cuore e nella tua stanza !

    Armando

  2. Armando, come quasi sempre accade siamo in assoluta sintonia e le tue sensazioni mi fanno capire quanto, anche tu, viva la musica non solo sotto l’aspetto prettamente tecnico-musicale ma in un ampio contesto culturale e geografico, che ci fanno rendere quei suoni un nostro “personale viaggio” in un’America lontana e, forse, mitizzata, ma che ci piace.

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