John Prine (1971), recensione di Antonio Boschi

Buona la prima, anzi ottima. Non è da tutti – e nemmeno facile – iniziare col capolavoro della propria carriera, cosa che è accaduta al folksinger e songwriter John Prine (1946-2020) da Maywood, piccola cittadina a 16 km ad Est da Chicago downtown.

Eravamo sul finire del 1970 quando l’allora ventiquattrenne Prine, postino di giorno, iniziò ad esibirsi nei club della ventosa metropoli dell’Illinois assieme ad un altro gruppo di cantautori tra i quali l’amico Steve Goodman che volle a tutti i costi presentarlo a Kris Kristofferson, per il quale aveva aperto una serie di concerti, e a Paul Anka che restarono colpiti da entrambi gli artisti.

Mentre Goodman approdava alla piccola etichetta newyorkese Buddah Records all’incredulo Prine si spalancarono le porte dell’Atlantic, la celebre etichetta di Ahmet Ertegün e Herb Abramson, anch’essa con sede a NYC. Jerry Wexler lo aveva notato ad un concerto del cantautore texano al Bitter End e offrì il proprio contributo per registrare la canzone “Paradise” presso gli A & R Studios, mentre per il restante John si trasferì a Memphis, Tennessee, dove agli American Sound Studios (proprio quelli dove incisero anche Elvis e Aretha Franklin) vennero messi su nastro i rimanenti 40 minuti delle restanti 12 tracce.

Da sottolineare che a quei tempi il mondo della musica era orfano di Bob Dylan, ritiratosi a Woodstock dopo l’incidente motociclistico, ed era necessario trovare un degno sostituto. Uno di questi doveva essere Prine che invece, seppur debitore verso il premio Nobel di Duluth, viveva di luce propria e l’album di debutto denotò immediatamente la sua personalità, ironia e risolutezza.

John Prine: il disco di debutto

Ed eccolo questo piccolo capolavoro senza tempo iniziare con la stupenda “Illegal Smile” che accarezza il miglior country grazie al delizioso lavoro del chitarrista Reggie Young dei Memphis Boys e session man di notevole fama con l’aggiunta della pedal steel di Leo LeBlanc.

“Spanish Pipedream” continua su questo filone e che ci porta ad un vero capolavoro come “Hello In There”, ode alla vecchiaia interpretata anche da Bette Middler e Joan Baez.

La piaga della droga, uso di eroina o dipendenza dalla morfina, soprattutto tra i veterani del Vietnam, è la trama della melanconica e meravigliosa ballata “Sam Stone” che termina con la tragica morte dello sfortunato protagonista. Canzone di rara bellezza che vive sul gioco della chitarra acustica e voce di Prine e dalla cupa atmosfera creata dalle note dall’organo di Bobby Emmons.

Steve Goodman arriva ad aiutare l’amico nella stupenda “Paradise” ripresa in seguito da una nutritissima schiera di artisti come Country Gentlemen, Seldom Scene, Johnny Cash, John Fogherty, Dwight Yoakam, Roy Acuff solo per citare quelli a me più cari.

Chiude la prima facciata dell’album l’elettrica “Pretty Good”, la più dylaniana del disco ed è inutile dire che siamo di fronte ad un alto pezzo di assoluta bravura.

Apre il lato B “Your Flag Decal Won’t Get You Into Heaven Anymore”, divertente brano che ci riporta verso sonorità più country e rilassate.

È tipico per gli americani innamorarsi della cameriera che ti serve il caffè, come capita al timido protagonista di “Far From Me” in questa delicata e sognante ballata da strade deserte e polverose che anticipa il brano più famoso di tutta la carriera di Prine.

Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio capolavoro con “Angel From Montgomery”, provocatoria oltre che bella, considerato che la protagonista è una donna non più giovane che racconta la propria vita. Non il classico maschilista oggetto di un cowboy ma, al contrario, una risoluta femmina che vuole – con l’aiuto di un angelo – rifarsi una vita lontana dal suo matrimonio fallito. Magnifica canzone ripresa anche da Bonnie Raitt, Susan Tedeschi, Carly Simon, Dave Matthews Band, Ben Harper e tantissimi altri che l’hanno saputa rendere immortale.

“Quiet Man” è una veloce folk song con un bel piano elettrico (Bobby Wood) a far compagnia all’Hammond di Emmons.

Una triste storia di amore nella provincia americana ci è raccontata in “Donald & Lydia” mentre gli spiriti di Woody Guthrie e Hank Williams giocano con John Prine nella bella “Six O’Clock News” che ci conduce alla finale “Flashback Blues” con, ancora, Goodman alla chitarra.

Un disco quasi indispensabile per chi ama la musica americana per un artista che, pur non arrivando forse più a queste vette, ha saputo regalare all’umanità una serie di ottimi album a coronamento di una carriera onesta e ricca di soddisfazioni e premi, nonostante i tanti gravi problemi di salute che lo tormenteranno a partire dalla fine degli anni Novanta. Ci penserà il Covid, il 7 aprile 2020, a privarci di un’icona della musica roots americana. Ci restano questo e i seguenti album come testimonianza della sua grandezza.

Oltre che per la Atlantic (1971-1976), Prine incise per la Asylum di David Geffen e Elliot Roberts (1978-1980) per poi fondare, nel 1981, la Oh Boy Records con sede a Nashville, Tennessee.

[Antonio Boschi]


John Prine cover album


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