Un tempo, abbastanza anni fa, all’incrocio tra Congress Avenue e Austin Street, in pieno centro di Houston, Texas, proprio di fronte al tribunale locale (Harris County 309th Distict Court) c’era una costruzione mattoni a vista che al secondo piano ospitava il locale di Rex Bell e Dale Soffar chiamato The Old Quarter, che i due amici inaugurarono nel 1965 e dove alla gente del posto piaceva un sacco andare a bersi una birra ghiacciata e mangiare del pop-corn mentre sul piccolo palco si esibivano artisti di tutti i tipi, da Lightnin’ Hopkins a Guy Clark fino a Townes Van Zandt (1944-1997), che era diventato un amico dei due gestori.
L’Old Quarter era uno di quei locali che ci vai perché sei sicuro che ti diverti e non ci fai nemmeno caso che se guardi fuori dalla finestra vedi le celle del tribunale e i suoi ospiti. Era un’icona, ecco cos’era. E Townes lo aveva capito perché sono questi locali che ti tirano fuori le emozioni e lui – che ne aveva da vendere – deve tantissimo a questo fumoso e poco pulito paradiso per la musica e a noi, umili ascoltatori che a quel tempo non sapevamo neanche che esistesse, quelle emozioni ci arrivano grazie a questo doppio album registrato in un torrido luglio del 1973 ed uscito per la label newyorkese Tomato Records solo 4 anni dopo (TOM 2-7001).
Notti canicolari in una stanza gremita di gente che neanche la cameriera riesce a passare per portare le birre e c’è il solo registratore portatile di Earl Willis a cercare di congelare momenti di grande intimità come il buon John Townes Van Zandt sa fare ormai da parecchi anni, e il pubblico lo sa.
Non è facile sedersi, chitarra in mano, davanti a cento persone tutte concentrate su di te e tenerle lì per quasi 2 ore regalando loro emozioni a non finire. Van Zandt lo faceva, e anche maledettamente bene. La gente, chi vestita bene, chi in jeans (immaginiamo tutti con cappello da baseball o da cowboy) arriva alla spicciolata. Tutti si prendono una prima birra, rigorosamente gelata, e si siedono mentre sale sul palco Soffar che presenta e parte una memorabile “Pancho & Lefty”, uno dei brani più amati del songwriter di Fort Worth.
E mentre le note corrono tra dolci ballate, talkin’ blues e country song tipicamente texane veniamo catapultati in un mondo tutto suo, tra le debolezze e le gioie di quegli anni, che neanche te ne accorgi che hai fatto girare le 4 facciate dei dischi e sei già pronto a ripartire da capo. Manco fossimo in un racconto di Cormac McCarthy, di James Anderson o di Kent Haruf.
È quasi inutile andare a cercare quale delle 26 canzoni sia più bella, non ha senso farlo quando sei al cospetto di serate come quelle che fortunatamente il registratore di Willis ha inchiodato sul nastro, insieme e forza di questo strepitoso show. Ci passano tutte e ci colpiscono come se l’occhialuto cantastorie fosse qui nella nostra cucina a suonare mentre prepariamo l’arrosto.
“Tecumseh Valley” o “Cocaine Blues”, il classico di Merle Travis “Nine Pound Hammer” o il blues di Lightnin’ Hopkins “Chaffeur’s Blues” per non dire il classicissimo “Who Do You Love?”. E “Two Girls” e un suo cavallo di battaglia come “If I Needed You” o la meravigliosa “No Place To Fall” e via via con “Loretta”, “Kathleen” fino a “Waiting ‘Round To Die” e alla finale “Only Him Or Me” e tutte le altre.
Il testamento sonoro di un artista grandissimo, rimasto nell’ombra, ma che ha saputo influenzare intere generazioni di songwriter con la sua poesia solitaria e melanconica. Un artista – di quelli veri – per chi ama la musica e che ci manca maledettamente tanto.
[Antonio Boschi]
2 Responses
Concordo Antonio e gran bel disco quello di cui parli. Artista e uomo che si è sempre portato sul groppone quel blues, tanto amato ed ascoltato dal mai dimenticato Lightin’ Hopkins quanto la malinconia di un certo Hank Williams. Credo tra l’ altro…non sia nemmeno così facile ascoltarlo o perlomeno non ti prende all’istante come può farlo il suo vecchio amico Guy Clark !?! Ci deve essere il momento e il giorno giusto, un po’ come può capitare per certi versi quando metti su Leonard Cohen o Nick Drake. I suoi testi penso, all’ apparenza così semplici ,nascondono però grande poesia. In mancanza di quei dettagli che rendono così cinematografici quelli di Clark, qui hai del terreno che va innaffiato ma sai che se ben curato saprà regalarti dei bellissimi fiori.. !! È la cosa che a me almeno accade, quando sento che è giunto il momento di metter su qualcosa del grande Townes, anche se in realtà, più che saperlo… è lui che mi chiama !!
Armando
Concordo in pieno Armando, ed hai fatto benissimo a citare Nick Drake perché l’accostamento – pur con le dovute differenze di suono – è perfetto. Due artisti che ti prendono nell’intimità, che sono piacevoli da ascoltare in solitudine, quasi si voglia avere un confronto diretto con loro.
Dischi, se vuoi, notturni, non di quelli che metti su per far colazione la domenica mattina.