recensione di Antonio Boschi del disco di Doc Watson Live At Club 47

Doc Watson è indubbiamente una vera e propria icona per tutta la musica tradizionale americana, con alle spalle una carriera e una storia incredibile (qui una sua biografia).

Merito della Yep Roc Records – etichetta di Hillsborough, North Carolina, nata nel 1997 grazie a Tor Hansen e Glenn Dicker – se possiamo godere di questa esibizione in perfetta solitudine di Arthel Lane Watson, meglio conosciuto come Doc. Se cercate un chitarrista capace di stupirvi senza effetti speciali, lo avete trovato. Se cercate un chitarrista e magnifico cantante che sappia raccontare l’evoluzione dell’American Music, lo avete trovato.

Senz’altro in circolazione ci saranno strumentisti tecnicamente superiori al buon Doc, ma con altrettanta certezza possiamo dire che nessuno ha saputo trovare equilibrio tra tecnica, gusto e rispetto delle tradizioni quanto ha fatto nella sua lunghissima carriera questo artista nato nel marzo del 1923 a Deep Gap, piccolissima frazione a oltre 900 metri di altitudine nelle Blue Ridge Mountains che fanno parte della catena degli Appalachi.

Divenuto cieco a nemmeno un anno il giovane Arthel è stato abituato dalla famiglia ad avere una propria indipendenza e uno stile di vita che gli ha permesso di muoversi anche da solo in grandi città come New York quando nei primi anni ’60 iniziò ad esibirsi in vari club della grande metropoli. Possiamo affermare, anche, che la cecità lo tolse da giovane dalla minuscola realtà locale per portarlo a Raleigh, importante centro culturale nonché Capitale del North Carolina dove frequentò la “Governor Morehead School” e presso la quale assimilò le varie influenze musicali che in futuro abbinerà alla mountain music e al gospel imparato a casa o tramite le frequentazioni con artisti locali come Clarence (Tom) AshleyGaither Carlton (tra l’altro padre della moglie Rose), Fred Price e Clint Howard.

Quindi non abbiamo solo un bravo esponente di Old Time Music, ma colui che saprà alternare fiddle tunes con blues, gospel, country & western e rock’n’roll. La svolta avvenne nei primi anni Sessanta quando da NYC giunsero, spronati dal nascente movimento folk, Ralph Rinzler ed Eugene Earle che arrivarono in North Carolina per registrate brani di Ashley, ma quando ascoltarono per la prima volta Watson (che allora si esibiva con una Gibson Les Paul) restarono folgorati arrivando a convincerlo, non con estrema facilità, a passare alla chitarra acustica e a seguirli nel Nord degli States e lanciandolo verso un nuovo pubblico affamato di artisti folk.

Doc Watson – Live at Club 47

Nonostante le difficoltà e le paghe basse Doc riuscì ad imporsi e ad ottenere scritture in sempre più importanti locali e il 10 febbraio del 1963 ecco l’esibizione al celebre Club 47 che al tempo si trovava al 47 di Mount Auburn Street a Cambridge, nel Massachusetts e dal 1969 rinominato Club Passim nella nuova sede in Harvard Square. Questo locale è noto per aver aperto le proprie porte ad artisti blues come Mississippi John Hurt e Rev. Gary Davis quando tutto questo non era per nulla semplice e benvisto. Il concerto venne registrato da Michael Eisenstadt con un singolo microfono collegato ad un magnifico registratore a nastro Nagra capace di catturare con perfezione una fantastica serata dove Doc passa con disinvoltura dall’Old Time Music al Blues regalandoci una vera lezione di musica.

Questo album ci permette di godere Watson nella migliore delle sue formazioni, ovvero quando è da solo. Qui, come nel meraviglioso “On Stage” dove è supportato dal figlio Merle, esce la vera arte di Doc che non deve dar spazio ad altri musicisti ma è lui con la sua voce, la sua chitarra – qui ancora la Martin D18 (poi passerà alle Gallagher) presumibilmente la stessa che apparirà l’anno seguente nell’omonimo album di debutto per la Vanguard Records – o il suo banjo ad essere il protagonista assoluto della scena. Una scena capace di tenerti incollato per tutto il tempo perché Watson non è solo un grande musicista ma è anche un grande intrattenitore, capace di raccontare la storia dei brani che sta per proporre come di portare allegria tra il pubblico, sempre numerosissimo ad ogni suo spettacolo.

Questo live parte con una bella versione di “Wabash Cannonball”, un classico della Carter Family, tra le principali influenze per Doc Watson e non solo, nella quale si accompagna anche con l’armonica, il primo strumento avuto in regalo da “Babbo Natale” che era solito lasciarne una ogni anno nella sua calza appesa al camino di casa. “The House Carpenter” è un traditional che Doc ha ascoltato la prima volta dal padre ma, ovviamente, anche dal repertorio dell’amico Clarence Ashley e qui iniziamo a scoprire la grande tecnica flatpicking di questo straordinario interprete.

Seguono due altre celebri songs della Carter Family: “I Wish I Was Single Again” seguita da Little Darling Pal Of Mine” dove Doc utilizza l’autoharp, uno strumento abbastanza tipico in quelle valli montane. A questo punto Doc cambia l’accordatura alla sua chitarra e ci propone due blues dal repertorio di Frank Hutchison, “Train That Carried My Girl From Town” e la seguente “Worried Blues” dove possiamo notare l’abilità di Watson anche nello stile fingerpicking. “Old Dan Tucker” fu resa celebre dal grande Riley Puckett già nel 1928, mentre “Sweet Heaven When I Die” potrebbe arrivare da un ascolto radiofonico di una esibizione di Dick Hartmann And The Tennessee Ramblers.

Si prosegue con “Talking Blues”, ancora chitarra, voce e tanta simpatia mentre per “Little Margaret” Doc imbraccia il suo fido banjo a 5 corde per una versione sullo stile di Pete Seeger. Si torna al blues con una bellissima versione del classico “Sitting On Top Of The World” ancora in fingerpicking style.

Una delle mie canzoni favorite sia nel repertorio di Watson che in quello di David Bromberg (che molto deve al chitarrista di Deep Gap) è “Don’t Let Your Deal Go Down”, registrata da Charlie Poole nel 1925 e qui interpretata con gran classe. Non sono – invece – mai stato un grande estimatore dello stile di Merle Travis, ma questa “Blue Smoke” ci conferma l’abilità di Watson capace di far sue differenti tecniche. “Deep River Blues” è un classico nel repertorio del nostro ed è sempre un gran piacere ascoltarla.

È la volta degli ospiti e sul palco si accomodano il mandolinista Ralph Rinzler e l’amico John Herald alla seconda chitarra ed entrambi alle harmony vocals per le belle versioni del trittico “Way Downtown”, il gospel “Somebody Touched Me” e lo strumentale conclusivo “Billy In The Low Ground”, sempre bellissimo. “Boil Them Cabbage Down” è un vecchio traditional che con facilità Doc ha imparato da Fiddlin’ John Carson ma già nei repertori di Uncle Dave Macon, Gid Tanner ed altri. Doc gioca con la chitarra e col pubblico con “Everyday Dirt” di Dave McCarn, e subito dopo torna Merle Travis e la sua celebre “I Am A Pilgrim”, anche in questo caso resa meravigliosamente da Doc che si supera anche al canto.

L’influenza di A.P. Carter, la moglie Sara e la cognata Maybelle la ritroviamo tutta nelle versione – ancora con autoharp – di “No Telephone In Heaven” che ci riporta sulla veranda di una vecchia casa degli Appalachi. E visto che si parla di grandi musicisti del passato ecco ancora Uncle Dave Macon e la sua “Hop High Ladies The Cake’s All Dough”, solo chitarra e armonica. Ci avviciniamo alla conclusione del concerto Watson propone al suo pubblico una meravigliosa versione del brano “Little Sadie”, imparata dall’amico Tom Ashley che la registrò per la prima volta nel 1929 su un album Columbia.

Torna John Herald per aiutare Doc nelle versioni di “Black Mountain Rag” e “Blackberry Rag”, due storici fiddle tunes da sempre nel repertorio di Watson. Se la prima difetta un tantino in una continua accelerazione – quasi a dimostrare la bravura (se ce ne fosse bisogno) – la seconda è una versione che ci dimostra come la tecnica non debba mai superare il cuore, un concetto che – purtroppo – non tanti chitarristi hanno reso proprio oltrepassando quell’invisibile confine che rende un artista unico ed inimitabile. Il concerto si chiude con una sentimentale versione di “Days Of My Childhood Olays” di Alfred G. Karnes.

Gli applausi del pubblico che scemano e se ne va un gran bel pezzo di storia che ci fa notare come, a volte, basti una chitarra, un buon microfono e un registratore per fare un grande disco. L’unica cosa difficile è trovare persone che sappiamo imbracciare quella chitarra e sedersi dietro a quel microfono con la stessa classe e qualità di Doc Watson.

[Antonio Boschi]


la copertina del disco Doc Watson Live at Club 47


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