Neil-Young_foto-Giorgio-Baratto-©

Out of the Blue, into the Black (Music)

Autunno 2016,
Parafrasando una delle canzoni più popolari dell’ormai settantunenne Neil Young voglio farmi uno “speciale regalo” e parlare di un artista e di un genere musicale a me particolarmente cari e che difficilmente vengono accomunati.

Consapevole che questo mio scritto su Young potrà far storcere il naso a tanti appassionati di blues cerco di portare alla luce una mia personale visione su quanto blues, nonostante tutto, ci sia tra le corde del gigante canadese. Vista la difficoltà della materia (non è certamente un artista etichettabile) ho deciso di fare – sul finire della scorsa estate, una costruttiva chiacchierata con il contributo di due amici: Giampaolo Corradini (scrittore, giornalista, musicista e organizzatore del Neil Young Day) e Gabriele Longoni (anch’esso provetto musicista), notoriamente due grandi ammiratori di Young.

Partiamo da quanto emerso in una intervista a Musician del 1988 quando, in presentazione del suo album “This Note’s For You”, Young affermò: “Mi sono ricordato che Mike Bloomfield mi aveva detto che avrei dovuto suonare e cantare del blues perché credeva che lo avrei fatto in modo naturale. Anche Paul Butterfield me lo ripeteva spesso e così me ne sono convinto”.

Ed ecco arrivare il ritorno all’etichetta Reprise Records dopo i burrascosi anni passati sotto la Geffen con un disco che lo rilanciava nell’olimpo dei grandi artisti con un prodotto di blues e r’n’b dove, assieme ai Bluenotes, Neil rivede a modo suo la musica black, con uno splendido risultato, come testimoniato anche dalla recente uscita del doppio CD live “Blue Note Cafè” inserito negli ormai famosi e attesi “Archives”. Ma non è certamente questa la prima volta per Neil che già nei Buffalo Springfield (vuoi per la compagnia di Stephen Stills) aveva fatto emergere tra i propri suoni tracce di blues.

Tracce mai nette e subito percepibili, ma intense, sincere e capaci di andare a scandagliare – soprattutto nei momenti più tristi della sua vita – gli angoli bui e i tormenti dell’anima. Dal debutto con l’omonimo album (1968) fino al recente “Peace Trail” (2016), preceduto da un tour estivo che risulterà tra i più belli (e blues) della sua lunghissima carriera artistica, Young ha incontrato la musica del diavolo in innumerevoli occasioni, alcune nette ed evidenti (vedi gli album Tonight’s The Night” e “On The Beach” oltre al già menzionato “This Note’s For You”) e altri meno palesi ma, come ad esempio in “Alabama” dall’album “Harvest”, che hanno lasciato un profondo segno e, soprattutto – ed ecco un’altra similitudine col blues – hanno influenzato le nuove generazioni.

È un dato di fatto che Neil Young sia stato uno di quei rarissimi artisti che ha saputo anticipare i tempi. Fu tra i primi a capire che il movimento hippie aveva fallito, il primo a vedere che era giunta l’ora per il punk, la new wave, il grunge, anche a costo di diventare antipatico e impopolare. Ma alla fine, nonostante rumorose cadute, ha sempre saputo lanciare il suo messaggio, urlandolo con furore elettrico assieme ai fidi Crazy Horse oppure nelle più sommesse versioni acustiche. Eccoci quindi, complici gli ultimi afosi caldi estivi della pianura padana, seduti ad un tavolo in compagnia di una bottiglia (che poi son diventate tante) di spumoso Lambrusco con Giampaolo e Gabriele a cercare di spiegare (o, forse meglio, di capire) in poche pagine la complessità e la grandezza del personaggio Neil Young e del suo personalissimo blues, cercando di non dare troppo spazio all’amore verso questo artista, faro nei personalissimi percorsi dei tre commensali.

Iniziamo dall’analizzare il modo di registrare i propri brani che, fatta esclusione per l’album d’esordio ricco di sovraincisioni, vede Young, sia esso solo o con la band di turno, imprimere su nastro il suono diretto, quasi fosse un live senza tanti ritocchi. Ancora da un’intervista a Rolling Stone dei primi anni ’70 Young affermò: “alcuni preferiscono quel sistema, come i Beatles. Questa è la differenza con gli Stones che hanno sempre quattro o cinque persone che suonano contemporaneamente, e questo è emozionante”. In questo album, però, dobbiamo sottolineare il capolavoro quasi gospel di metafore sulla morte “The Old Laughin’ Lady” che ancora oggi lascia l’ascoltatore sospeso in un’atmosfera surreale.

Già nel seguente album “Everybody Knows This Is Nowhere” (1969) si vedrà quello che sarà il futuro Neil Young. In questo lavoro troviamo “Down By The River” la prima cavalcata chitarristica, che diventerà un marchio di fabbrica per il nostro, intrisa di un pigro blues fin dalle prime note e con un testo che parla di amore e omicidio. L’anno seguente vedrà Young impegnatissimo assieme a CS&N e a mettere alla luce un altro dei suoi gioielli discografici (“After The Gold Rush”) che conterrà “Southern Man” la prima canzone a toccare a fondo la problematica dell’odio razziale negli Stati del Sud degli USA che, insieme ad “Alabama” scatenerà l’ira dei Lynyrd Skynyrd che risponderanno con la loro “Sweet Home Alabama”. Il brano, in tonalità minore come il precedente, è un fortissimo e polemico attacco contro il razzismo che desterà parecchio interesse in tutto il resto del mondo contribuendo a far diventare un problema, limitato ad alcuni Stati, di partecipazione globale.

La capacità di Young di costruire brani dalle forme semplici dove la ripetizione non è mai piatta o monodimensionale, che è la lezione fondamentale del blues, lo hanno reso l’artista così amato da un pubblico eterogeneo, in ogni angolo della terra. Anche l’utilizzo di accordature aperte avvicina Young al blues, anche se quella principalmente usata dal canadese è in “double dropper D” e non le consuete accordature in Re o Sol impiegate dai bluesmen soprattutto del Mississippi.

Dopo il grande successo di “Harvest” (1972), che ha consacrato Neil Young come uno dei più importanti songwriter di tutti i tempi, ecco arrivare – per scelte personali (salute e amore) e per le dolorose morti per overdose di grandi amici (Danny Whitten, chitarrista dei Crazy Horse alla quale è dedicato il capolavoro “The Needle And The Damage Done” e il roadie Bruce Berry) il periodo al tempo considerato “della crisi”. Sarebbe bastato bissare il successo di Harvest, invece all’uscita di “Journey Through The Past” (colonna sonora di uno strampalato film autobiografico) fanno seguito il live di soli inediti “Time Fades Away” (1973), l’oscuro “Tonight’s The Night” (registrato nel 1973 ma pubblicato due anni dopo) e “On The Beach” (1974) che oggi si prendono una grandissima rivincita sui non certo lusinghieri commenti dell’epoca, e considerati pietre miliari non solo nella produzione di Young ma per l’intero panorama rock.

Questo trittico è, indubbiamente, quello più black di tutta la carriera e da soli potrebbero bastare per poter annoverare il solitario musicista tra gli artisti blues. Morte, amori finiti, depressione, nichilismo e disperazione emergono dai testi di Young, non il sesso, a differenza della più classica tradizione blues, mentre un suono scarno – anche stonato – e la meravigliosa e particolarissima voce di Young ci mostrano, forse come mai più accadrà, il vero volto di questo geniale artista. Il 1975 vedrà ritornare un barlume di sole nella discografia younghiana con il bellissimo “Zuma” che conterrà, oltre a “Barstool Blues” il capolavoro “Cortez The Killer”, lunga ballata chitarristica che si basa su una struttura, anch’essa in minore, di tre soli accordi che lasciano spazio per divagazioni solistiche, soprattutto nelle esibizioni live.

Willie Nelson, Anthony LoGerfo, Neil Young -Milano – 18 luglio 2016 (foto Giorgio Baratto ©)

Willie Nelson, Anthony LoGerfo, Neil Young -Milano – 18 luglio 2016 (foto Giorgio Baratto ©)

Dopo una quasi inutile reunion con l’amico/nemico Stills, dal quale scaturisce l’album “Long May You Run” (1976), il folk sporcato di rock di “American Stars‘n Bars” (1977, che contiene l’hit “Like A Hurrikane”) e “Comes A Times” (1978) ecco, nell’estate del 1979, uscire uno degli album che lasceranno maggiormente il segno nella produzione del canadese: “Rust Never Sleeps” che, assieme al seguente “Live Rust”, darà una vitale scossa al panorama rock di quegli anni, prima di entrare nel periodo creativo peggiore che inizierà col seguente “Hawks & Doves” (1980, ma con ancora alcune tracce di alto spessore) dove Young sperimenterà suoni svariati, dall’elettronica al rockabilly fino al country nashvilliano, tutti con una determinata logica che si capirà parecchi anni dopo.

Tutto questo, anche, a causa del disaccordo con la nuova etichetta Geffen accusata dallo stesso artista di averlo “imprigionato” in logiche per lui non accettabili. Infatti appena lasciata la label creata da David Geffen, fondatore della Asylum, ecco il nostro eroe arrivare alla produzione di quel “This Note For You” che, assieme al recente live di quel tour di fine anni ’80, riporta Neil Young a far parlare di sé. Disco apertamente bluesy con una tematica dei testi apertamente in disaccordo con il mondo del rock divenuto schiavo e servo dei poteri forti. Un disco da tanto nella mente di Neil e nato principalmente alla guida delle sue auto storiche (una delle grandi passioni di Young) che lo vede impegnato al fianco di una vera e propria big band con tantissimi fiati e che si divide tra R’n’B indiavolato e lente ballate blues dove la fidata Gibson Les Paul nera al posto dei caratteristici furiosi assolo offre un ispiratissimo repertorio blues senza, però, perdere la personalità del canadese.

Sta ricominciando un ennesimo periodo di grande forma confermato col successivo “Freedom” (1989) che oltre all’ennesimo hit generazionale, “Rockin’ In The Free World” contiene una furente rilettura del brano di Leiber & Stoller “On Broadway” portata precedentemente al successo dai The Drifters e George Benson. L’ingresso negli anni ’90 vede, quindi, Young nuovamente protagonista e faro ispiratore per tante nuove generazioni musicali (Nirvana e Pearl Jam e Nick Cave su tutti) e il ritorno coi fidati amici Crazy Horse. Dischi e tour all’insegna del furore elettrico hanno caratterizzato buona parte dell’intero decennio, con l’esclusione della parentesi di “Harvest Moon” (1992) arrivando, così, al ventunesimo secolo ancora a guidare dall’alto della sua esperienza buona parte della scena musicale rock. Le venature blues in questo periodo si affievoliscono, nonostante un tour mondiale accompagnato da Booker T & M.G.’s (oltre al celebre hammondista troviamo Donald “Duck” Dunn al basso, Steve Cropper alla chitarra e Jim Keltner alla batteria), conosciuti in occasione del concerto tributo per l’amico Bob Dylan al Madison Square Garden di NYC nell’ottobre del 1992.

Blues che, invece, torna a metà del primo decennio seguente in occasione di quello che molti definiscono la terza parte della trilogia di Harvest che coincide con uno dei (tanti) tragici momenti di Young al quale viene diagnosticato un aneurisma cerebrale in primavera e pochi mesi dopo avverrà la morte del padre Scott, celebre giornalista canadese. L’album “Praire Wind” (2005) viene registrato a cavallo dell’intervento chirurgico e sarà pregno di riflessioni sulla vita, la morte, sulle radici e sulla famiglia. Un album sussurrato, quasi bucolico e registrato a Nashville ma ricco di sfumature black come nella bellissima “No Wonder”, apocalittico blues con un coro gospel che da solo vale il prezzo di tutto l’album. Il blues che da il titolo all’album è dedicato al padre colpito da Alzheimer e vede tutta la band (tra cui troviamo Spooner Oldman alle tastiere) impegnata in una intensa esibizione.

Non manca un omaggio ad Elvis (“He Was The King”) e in chiusura “When God Made Me”, un soul/gospel di solo piano e voci nel tipico stile younghiano che lascia l’ascoltatore in totale estasi. La discografia continuerà ad oggi con altri 11 album, magari non tutti dei veri capolavori, ma – senza ombra di dubbio – con sempre delle tematiche ben precise portare avanti da Young vuoi contro il governo Bush (“Living With War” del 2006) o contro le multinazionali che avvelenano la terra come in “The Monsanto Years” del 2015 e nel recentissimi “Earth” e “Peace Trail”.

Sembrerà strano ma proprio ascoltando Young e il suo blues possiamo meglio capire cosa sia realmente il blues, erroneamente etichettato come uno stile musicale al contrario di quello che tangibilmente è: uno stile di vita. E lo si ha dentro, lo si manifesta vivendo ed emerge quando si suona, anche se la musica non scandisce le classiche note. Young ha il blues, eccome, e nella sua musica spicca quando meno te lo aspetti, specialmente nei lunghi assolo quando, come un aliante che si lascia trasportare dal vento, il suono riflette l’attimo, l’essenza di quello che si è. Un suono senza orpelli, senza effetti. Chitarra e amplificatore e buona la prima, dove il togliere è legge (al contrario dell’amico Stills che amava riempire ogni spazio) lasciando anche quegli errori che sono l’anima della canzone che deve parlare con le parole e col sentimento del suono.

Neil Young il bluesman meno blues, oppure il non bluesman più blues. Comunque la vediate o la pensiate sicuramente si potrà aprire una discussione in merito a tutto ciò. E, allora, Neil Young avrà vinto ancora una volta.

Per concludere il Lambrusco era squisito, il salame affettato rigorosamente a mano “faceva l’olio” perché in questa “fettaccia di Terra”, come la chiamava Guareschi, funziona così. Perché questa terra vicina al Po è la più blues che si possa trovare in tutta Italia, e allora ascoltare Neil Young è ancora più bello.

[Antonio Boschi]

Ringrazio l’amico Giorgio Baratto per avermi concesso l’utilizzo delle sue fotografie, Giampaolo e Gabriele per il salame, il lambrusco, la bella serata e l’amicizia.

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