Ry Cooder Into The Purple Valley foto Antonio Boschi

In uno dei più celebri romanzi di Jules Verne il britannico Phileas Fogg e il suo cameriere Jean Passepartout compivano – tra peripezie varie – il giro del mondo in 80 giorni. Era il 1872 e un secolo dopo il californiano Ry Cooder iniziava un suo personalissimo viaggio attraverso la musica di tutto il globo, regalandoci oltre 40 perle di inestimabile valore, come “Into The Purple Valley”, seconda opera a suo nome, sul mercato grazie alla Reprise Records col numero di catalogo MS 2052.

Se volessimo stilare una di quelle sciocche e quasi inutili classifiche – che poi tutti, comunque, leggiamo alla ricerca di conferme o soprattutto per criticarne l’autore – dovremmo inserire Cooder un po’ in ognuna di esse. Miglior chitarrista, miglior album, miglior studioso, session man, colonna sonora e via discorrendo, è difficile non poterlo collocare in ogni categoria che ci possiamo inventare. La realtà è che, spesso, invece non lo troviamo e questa è, senza ombra di dubbio, una delle cause che farà inviperire tanti di noi. Senz’altro non lo stesso Cooder che – fregandosene totalmente – continua intelligentemente per la propria strada.

Al pari del quasi coetaneo David Bromberg, anche a Ry Cooder dobbiamo essere particolarmente grati per averci permesso di approfondire la nostra conoscenza delle varie musiche popolari, fondamentali per la nascita del rock. Ma se lo storyteller di Philadelphia ha concentrato la sua opera sulle tradizioni statunitensi ed anglo-scoto-irlandesi, il losangelino dopo aver affrontato la musica americana ha ampliato il proprio background musicale, prima spingendosi verso il Messico e parte del Sud America (Bahamas, Hawaii e Cuba comprese) per poi migrare verso le origini dei suoni dell’Africa e dell’India, con una serie di collaborazioni che hanno caratterizzato le sue produzioni negli anni Ottanta e Novanta.

Ma chi è Ryland Peter Cooder? Nato a Los Angeles nel 1947 con una punta d’orgoglio possiamo dire che nelle sue vene scorre un po’ di sangue italiano. Infatti la madre, Emma Casaroli, è di origine parmense (il fratello di lei era il cardinale Agostino Casaroli – personaggio di spicco del Vaticano, credo non gran vanto per il buon Ry) ma, soprattutto, Ry Cooder è un eccelso chitarrista, prima session man e poi artefice di una carriera solista di notevole importanza.

Proviamo a pensare a come potrebbe essere “Sister Morphine”, uno dei capolavori apparsi in “Sticky Fingers” dei Rolling Stones, senza la slide di Cooder ad intensificare l’agonia del protagonista del brano. Oppure pensiamo a “Bring The Family”, l’album che ha determinato la rinascita artistica e l’esplosione di John Hiatt o alla sua preziosa chitarra nei principali dischi di Arlo Guthrie, o nella prima versione di “Willin’”, nell’album d’esordio dei Little Feat, solo per citarne alcuni.

Erano, i primi ‘70, anni particolarmente intensi e geniali per la musica, mi sento di affermare unici ed irripetibili, e Cooder era destinato ad esserne uno dei principali protagonisti, pur restando defilato, grazie o a causa del suo carattere ritroso. Ma Ry Cooder è Ry Cooder e al pari del compianto Duane Allman quando si parla di slide guitar loro due erano i protagonisti assoluti, anche se molto diversi nello stile e nell’approccio.

Ry Cooder: Into The Purple Valley

Con “Into The Purple Valley” Cooder ci porta – anzi riporta – in quel tormentato periodo della storia americana che coincise con la Grande Depressione del ’29, e con il terribile periodo conosciuto come “Dust Bowl” che mise in ginocchio l’agricoltura del Midwest dando il via alla massiccia migrazione verso la terra promessa californiana, e sappiamo bene come andò a finire.

La bella copertina ci mostra un giovane Cooder assieme alla moglie Susan (sorella del noto produttore della Warner Russ Titelman) e l’album non è un semplice rifacimento di brani degli anni Trenta, piuttosto – e questo è uno dei maggiori meriti del chitarrista californiano – una personalizzazione di quelle canzoni, tanto da far diventare le opere altrui canzoni di Cooder. “How Can You Keep Moving (Unless You Migrate Too)” apre magnificamente le danze, con la fedele Fender Stratocaster a dettare la melodia raddoppiata dalla parte di slide con la Martin, mentre alle spalle Jim Keltner (uno dei batteristi più vicini a Cooder), Milt Holland, Chris Ethridge e Van Dyke Parks stendono un tappeto sonoro di notevole spessore in questo brano di Agnes Cunningham che racconta le difficoltà del popolo migrante verso la California.

Il mandolino è stato uno degli strumenti, assieme al violino, che hanno determinato la nascita della musica popolare bianca, soprattutto nella zona dei Monti Appalachi per, poi, sparire. Ma Cooder lo utilizza spesso, come nella sua meravigliosa versione di “Billy The Kid”, una storica ballad che narra le vicende del celebre fuorilegge Henry McCarty, un newyorkese divenuto celebre per le sue scorribande in New Mexico, probabilmente recuperata dal noto “Alan Lomax’s American Ballads and Folksongs”.

Money Honey” è un gospel scritto da Jesse Stone, con ancora la slide di Cooder in grande evidenza (che classe il ragazzo) e Claudia Linnear alla seconda voce. L’atmosfera diventa acustica con l’avvolgente calypso “F.D.R. In Trinidad” di Fritz Maclean dove l’uso della chitarra acustica (ancora la fedele Martin D45) ci consegna un Cooder di livello eccelso.

Sul finire degli anni ’50 Gerry Granahan, sotto lo pseudonimo Dicky Doo & The Don’ts, mise su nastro una versione doo-wop di “Teardrops Will Fall” che il nostro ci regala totalmente rivista e decisamente migliorata. Si inizia a percepire anche l’importanza del lavoro del grande pianista Jim Dickinson che produrrà questo e futuri dischi assieme a Lenny Waronker.

Dopo aver voltato con cura il vinile le note di “Denomination Blues” perdono la loro iniziale forma gospel che gli aveva donato il misconosciuto George Washington Philips, grazie al particolare lavoro di Cooder al mandolino, supportato da una sezione fiati composta da Jerry Jumonville (sax), George Bohanon (corno inglese) e le tastiere di Van Dyke Parks.

Tra le mie preferite in assoluto dell’album ecco “On A Monday”, brano di Huddie Ledbetter, dove emerge il tipico suono marchio di fabbrica di Cooder.

Nel settembre del 1954 Johnny Cash incise il suo primo singolo per la storica etichetta Sun Records di Memphis, Tennessee, anche in questo caso Cooder (che omaggerà in più occasioni la celebre star di Kingsland, Arkansas) re-inventa “Hey Porter”, rallentandola e conferendole un tono blues e melanconico.

Uno dei chitarristi che hanno maggiormente influenzato il suo acustico di Cooder è stato sicuramente il chitarrista Joseph Spence e, in questo caso, la reverenza per il chitarrista delle Bahamas è così forte che l’esecuzione di “Great Dream From Heaven” mantiene intatto lo spirito originale, in una memorabile versione strumentale.

L’importanza dell’immenso lavoro svolto dai New Lost City Ramblers – la formazione che vedeva al proprio interno Mike Seeger, fratello del più conosciuto (ma non vuol dire più bravo) Pete – nel recupero di storici brani della tradizione popolare statunitense è molto ben evidente in questo “Into The Purple Valley” dove, oltre al brano di apertura, troviamo una versione di “Taxes On The Farmer Feeds Us All” che da sola vale per posizionare Cooder nell’olimpo dei musicisti più bravi di tutti i tempi.

Per chiudere non poteva mancare un omaggio a Woody Guthrie, non l’unico ma tra i più importanti cantori di quegli anni della Grande Depressione. E “Vigilante Man” è un bravo significativo, perfetto nel contesto dell’intero album, oltre ad essere una perla genuina di cristallina bellezza, che dovrebbe insegnare ai tanti chitarristi in circolazione come si deve suonare la chitarra, senza un abuso di note ma con tanta anima.

Si chiude qui “Into The Purple Valley”, 37 minuti di meraviglia (quando non c’erano i CD i dischi duravano il giusto tempo), seconda opera di Ry Cooder che nello stesso anno ci regalerà “Boomer Story” pronto per intraprendere un percorso fino ai giorni nostri senza un solo passo falso. Roba che sanno fare in pochi.

[Antonio Boschi]

recensione di Antonio Boschi di Into The Purple Valley di Ry Cooder


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