Sul piatto gira “Showtime”, tutti zitti, si ascolta. Quando la puntina cala sui solchi di un disco di Ry Cooder si crea un’immediata atmosfera pressoché magica.
Un bel birbantello il vecchio Ryland Peter Cooder, quando decidi di ascoltare un suo disco entri in una fase di indecisione ed imbarazzo tali che ti verrebbe voglia di ascoltarli tutti, mica ce n’è uno brutto.
Il blues di “Ry Cooder” o di “Boomer’s Story”? Il folk di “Into The Purple Valley”? “Paradise And Lunch” o “Chicken Skin Music” con le sue cariche di Tex-Mex e musica dalle Hawaii? Ma perché non il suono più nero di “Bop Till You Drop” o l’Africa di “Talking Timbuktu” col grande Ali Farka Tourè?
E se optassimo per un bel live? Ecco, giusto, peccato solo che di live ufficiali di Cooder ce ne siano pochi, troppo pochi. Meno male che ultimamente stanno arrivando registrazioni tipo Radio Broadcastings che sopperiscono a questa gravissima lacuna. Perché Cooder live è una bomba. Noi appassionati incalliti del chitarrista californiano abbiamo girato alla spasmodica (e costosa) ricerca di bootleg perché il solo “Showtime” (1977 – Warner Bros. US 3069), pure vinile singolo, è una miseria. Però questo disco – posso dirlo con assoluta certezza – ha cambiato la vita a molti di noi.
“Showtime” il primo live di Ry Cooder
Registrato al The Great American Music Hall nelle sere del 14 e 15 dicembre del 1976 ci propone una parte (sigh) di uno di quelli che erano i concerti di Cooder con una band stellare composta dagli allora sconosciuti Isaac Garcia (batteria) Henry Ojeda (basso), Jesse Ponce (bajo sexto), Frank Villareal (sax alto) la magnifica fisarmonica di Flaco Jiménez e le straordinarie voci di Terry Evans, Eldrige King, e Bobby King.
Una bellissima Fender Stratocaster Daphne Blue imbracciata e si parte con una bellissima versione di “Alimony” coi suoi contrappunti gospel che segue l’iniziale “School Is Out”, registrata in studio.
Impugnata la fida Martin D45 Cooder ci regala una fantastica “Jesus On The Mainline” dove l’uso del bottleneck è da storia della musica. Ricordiamoci che per noi italiani in quegli anni erano un po’ tutte novità, il mercato ci regalava musicanti come i Queen, mica quelli bravi per davvero.
Si ritorna a sonorità elettrichew e l’intensità di “The Dark End On The Street” ti fa sperare che i 6 minuti possano diventare interminabili tale è la bellezza di questa esibizione coi 3 “black vocalist” che cantano da pelle d’oca, mentre Flaco Jimenéz ricama con la sua fisarmonica in attesa dello “slide solo” che è una lezione di stile oltre che di tecnica. Voto: 10 e lode e fine della facciata.
Il lato B si apre con una sequenza di musica norteña con un bel medley che comprende i traditional “Viva Sequin”, dal repertorio di Santiago Jimenéz, e uno dei capolavori di Woody Guthrie: “Do-Re-Mi” rivista in chiave Tex-Mex con mirabile risultato. La band crea un tappeto perfetto e Cooder è assolutamente a suo agio con questa musica fino ad allora confinata nei ghetti losangelini.
“Volver Volver” – altro classico brano della tradizione Chicana, ripresa successivamente anche dai Los Lobos e dall’immenso Harry Dean Stanton nel piccolo capolavoro cinematografico ‘Lucky’ – e cantata da Flaco Jimenéz, chiude l’omaggio borderline e ci riporta in pieni Stati Uniti con “How Can A Poor Man Stand Such Times And Live” e qui, col brano di Alfred Reed, tocchiamo una delle vette non solo di Showtime, ma della musica in toto.
Conclude l’album una lunga versione di “Smack Dab In The Middle” dove viene dato grande spazio anche alla band che verrà presentata nei saluti finali che ci porta alla conclusione di questo sontuoso (purtroppo breve) concerto di Ry Cooder, uno dei più importanti musicisti dello scorso secolo e che ha aperto, fortunatamente, un’autostrada anche a tanti musicisti italiani.
Se non lo avete correte a prenderlo, se lo avete – invece – correte ad ascoltarlo.
[Antonio Boschi]
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